Ce n’est qu’un debut?

By on Dic 1, 2019 in Contemporaneità

Potrebbe apparire singolare ma non lo è affatto. Mi riferisco all’atteggiamento nei confronti delle sardine di parte di persone che si definiscono di sinistra. Per chi non lo è più da un pezzo i giovani sono deludenti sia che “facciano” o non “facciano”, e in ogni caso qualunque cosa decidano di fare: significativo l’uso sostantivato del verbo fare da parte dei non più giovani. Tra tutti, i critici più astiosi sono i sessantottini. Quelli che “quegli anni” restano sempre formidabili, come titolava un libriccino del sor Capanna; formidabili e inimitabili, sicché ogni altra forma di ribellione all’ordine delle cose non può che risultare inadeguata, velleitaria e deludente. Non è un caso che prima delle sardine a star di botte toccasse alla povera Greta, e per estensione ai di lei seguaci gretini.

Per loro, per i sinistri DOCG e per i critici della contemporaneità (ah signora mia, ai nostri tempi!) nulla è genuinamente “di sinistra” e in ogni caso nulla lo è mai abbastanza. Reducismo a parte, malattia senile del narciso stagionato, la confusione cresce peggio dell’inflazione a Weimar nel ’23: posto che “destra” è termine comprensibile a chiunque, che significato ha invece oggi “sinistra”? Quesito ontologico più che lessicale, complesso al punto da richiedere l’ausilio di un’app che indichi in tempo reale cosa lo è ancora da ciò che non lo è più, come, ad esempio, il rituale sciopero dei ferrotramvieri di venerdì, il cui unico risultato è l’odio generalizzato per la categoria.

Pensavo al significato di “sinistra” anche quest’estate, stagione benedetta, tempo di fancazzismo e di lettura (le due cose coincidono anche se la seconda è un lavoro un po’ più impegnativo). Diciamo che ci penso spesso, circa ogni qualvolta la vita ti pone di fronte ad uno snodo e soprattutto quando la scelta ha valore etico. Benedetta l’estate e benedetto pure Wlodek Goldkorn, non so se più bravo come scrittore o come agitatore culturale; grazie a lui ho incontrato “Il valore del caso, storia della mia vita” (Castelvecchi) l’autobiografia di Agnes Heller. Tremendamente mal tradotto dal tedesco, o meglio – non conoscendo una sillaba di quella lingua – tremendamente mal reso in italiano, è stato insieme a “Breve storia della mia filosofia” il fil rouge della mia estate.

C’è la nostra di storia insieme alla sua. La storia di una bimbetta ebrea il cui padre – uomo “buono e retto”, i due valori fondanti dell’umanità secondo la Heller – viene assassinato ad Auschwitz; e poi di una giovane donna che nell’Ungheria sovietizzata è alla ricerca di un punto di equilibrio tra realtà oggettuale e idealità marxista; e infine l’autrice della “teoria dei bisogni”, pensatrice originale divenuta suo malgrado riferimento di chi nel ’77 faceva segno con la P38. Una biografia politica e filosofica (le due cose sono inseparabili) il cui approdo è la democrazia liberale che mette al centro la persona prim’ancora che l’individuo. Un mondo, quello dei paesi stuprati dallo stalinismo, che noi “di sinistra” possiamo a mala pena immaginare e che forse, nonostante buona volontà e buone letture, non immaginiamo affatto.

Che dire di noi “di sinistra”, di tutti noi che gridavamo yankee go home, ma zitti e mosca se da Est puntavano gli SS20 contro l’Europa; e dei molti di noi “di sinistra” che sentenziavano “né con lo Stato né con le BR” o persino “son compagni che sbagliano”; e degli ancora troppi di noi “di sinistra” che ogni 25 aprile con la scimmia della Palestina sulle spalle sputano sulla Brigata Ebraica tutta la saliva che hanno in bocca? Che dire della cecità di chi in perfetta buona fede ritiene di appartenere al campo “di sinistra” e trascorre l’esistenza nella presunzione di vedere più acutamente di chiunque altro?

Tornando alla Heller ho l’impressione che il caso citato nel titolo c’entri tutto sommato poco. Forse è un caso l’aver scampato il gas; ma nella sua storia, la vera differenza la fanno le capacità, la voglia di conoscere, l’impegno di distinguere, il coraggio di evolvere. La volontà, soprattutto, di compiere la fatica di porsi domande ad un tempo difficili e banali: da che parte abita il progresso, l’equità, la giustizia sociale. A ben vedere, tutte doti individuali, di quelle che temo non si possano insegnare. (In linea con i nostri tempi così banalmente feroci potremmo anche aggiungere la gentilezza, il rispetto, la tolleranza: cose da ricchi, insomma).

Viviamo in tempi più bui di quelli a cui alludeva il povero Bertolt Brecht. Allora la scelta era infinitamente più facile: era lei che sceglieva te. O stavi di qua con la croce uncinata, beninteso ammesso che tu ne possedessi i requisiti, oppure stavi di là. Magari tremante di terrore, ma con le idee chiare (chiarissime!) sulla differenza tra la vita e la morte: tra chi la morte la portava in effige sul berretto e chi cercava di scansarla quella morte. Oggi è tutto infinitamente più facile, almeno per chi non teme di vedersi sottratto uno straccio di lavoro, ma infinitamente più confuso: stiamo nel buio della caverna sapendo che fuori c’è il sole. Sempre la Heller ha intuito che la società divisa in classi è morta lasciando il posto alla società di massa. Se così è – ed è palese che lo sia – anche l’idea di sinistra va aggiornata: quella vecchia non ha più senso. Capirlo in fretta (siamo già in ritardo) ci impedirebbe di incaponirci in battaglie stupide che sono persino peggio di quelle di retroguardia.

Forse una nuova idea di sinistra è diventata maggiorenne. Può uscire da sola la sera senza bandiere di partito. Si aggrega per combattere una battaglia particolare, e si riconosce in molte altre generali. Si dichiara antifascista, libertaria, europea. Valori democratico-borghesi si dirà, “ben altra cosa la rivoluzione!”, quella con il punto esclamativo dei reduci e dei nostalgici. Fingendo di non sapere che di rivoluzione nel senso di “mutamento radicale di un ordine statuale e sociale” ce ne è stata una sola e non russava e di essa stiamo godendo ancora i benefici come del munifico lascito di una vecchia generosa zia.

E dunque, parafrasando il piccoletto in giacca e gilet, berretto da operaio in mano, che fare? Suggerisco di evitare i consigli non richiesti, e di mischiarsi alla folla di sardinese possibile con l’allegra incoscienza di chi continua a sperare che, come si gridava un tempo, questa cosa nuova altro non sia che un inizio.

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