Simm’e a napule paisà”.

By on Set 11, 2019 in Contemporaneità

Lavori sulla Milano-Genova, accendo la radio. Mi accoglie la voce fresca di Benedetta Tobagi che insieme a Lucarelli prova a spiegare i molti perché dei misteri italiani. Storie di bombe, di treni, di piazze, di depistaggi e di anarchici che come i violinisti di Chagall volano dalla finestra. Storie di tradimenti commessi da chi invece di servire lo Stato ha occultato la verità e sua sorella gemella la responsabilità. Storie di eroismi da parte dei pochi che si oppongono al conformismo e all’opacità del quieto vivere: qualche magistrato, qualche giornalista, qualche avvocato. La ricerca della verità va intesa come atto di prevenzione: come l’igiene orale mantiene la salute della bocca, così la verità dei fatti tutela la convivenza democratica. (Lucarellli, che è grossier di natura, le fa eco in chiave scatologica forse pensando ad un convegno della Lega).

Le auto si rimettono in moto e insieme a loro il pensiero che il tema dominante del nostro paese sia sempre la memoria: ciò che si vuole conoscere e si ritiene importante conservare e tramandare. La memoria vive di narrazione e, come abbiamo imparato più volte a nostre spese, l’esito dipende dalla volontà di chi racconta oltreché dalla sua abilità. L’Italia è piena di testimonianze. Dall’Unità d’Italia alla prima guerra mondiale, ogni città, paese e paesetto ha la sua piazza e le sua vie principali e il suo bravo monumento dedicati al quartetto Cavour-Mazzini-Garibaldi-Vittorio Emanuele; mentre i caduti sono celebrati con cippi e corone di pietra, cannoni, ghirlande, bombarde e mitraglie, i complementi d’arredo della mistica nazionale dell’onor di patria. Del resto c’è poco da fare gli schizzinosi, tutta l’Europa è butterata come il volto di un adolescente dall’acne.

In questo trionfo barocco brianzolo (angeli, cannoni, bandiere, sciabole e cavalli scolpiti nella pietra e nel cemento) trova la sua cuccia ideale il cerchiobottismo, il carattere nazionale per eccellenza: l’incapacità (o meglio la non volontà) di prender partito. Una malattia più grave del trasformismo. A differenza del trasformista il cerchiobottista non è obbligato ad offrire spiegazioni. È il tempo (verrebbe da dire “la Storia”) che accumulando i fatti come se fossero stratificazioni geologiche, crea una narrazione spontanea come la vegetazione ai bordi delle strade nella quale ogni scelta è lecita ed ha la sua brava equivalenza come se ogni cosa, ogni fatto, ogni scelta fossero il frutto del caso o del destino.

Un esempio da manuale lo si trova in una piazza di Chiavari. In duecento metri scarsi la “memoria” ha messo insieme vittime e carnefici, massacrati e massacratori: il partigiano venuto a morire in una terra che non era la sua; il prete massacrato dai nazisti; il militare di carriera caduto a fianco dell’alleato tedesco; il fanatico fascista impegnato a spezzare coi gas le reni all’Etiopia. Non c’è bene, non c’è male. Non c’è scelta e non c’è verità. Neppure quella dei vincitori che, nel dubbio, non sanno per quanto lo saranno né tantomeno per chi.

Come recita il più immondo manifesto del qualunquismo nazionale “Chi avuto, avuto, avuto/ Chi ha dato, ha dato, ha dato/ Scurdammece’o passato/ Simm’e a napule paisà”.

ravera