L’apparentemente inspiegabile successo di Zygmunt Bauman in questi giorni sulla Rete – citato “come una pop star” scrivono – è in realtà assai facilmente spiegabile. Il filosofo di origine e scuola polacca (incredibile quanti pensatori di valore abbia donato al Novecento questo piccolo e sciagurato paese) ha personificato il grande e inesausto bisogno di padri in un’epoca come la nostra che i padri (e in generale le figure guida) prima le ammazza e poi ne piange il vuoto.
Un ruolo, quello di Bauman, temo vissuto attraverso la sua figura di meraviglioso anzianissimo piuttosto che grazie ai suoi scritti; dubito fortemente che siano molti coloro i quali siano giunti in fondo alle sue opere (parliamo di 500.000 copie complessivamente vendute in Italia) difficili e complesse come sempre accade ai lavori di valore: siamo un paese di bevitori d’etichette, sicché altrettanto temo accada con i libri, specie se irti di pensiero. Si acquistano, si sbirciano un paio di paginette e via, tanto più che Bauman ha pagato la sua fama intellettuale con l’uso e l’abuso furbetto e markettaro di editor che hanno sparso come l’incenso quell’aggettivo “liquido” che pure lui nelle sue lezioni dicono non usasse mai.
Un padre/nonno acuto pensatore ci lascia nei giorni in cui dall’altra parte dell’Atlantico un altro padre nobile termina il suo mandato, mentre il mondo “solido più che liquido” non cessa di presentarci i conti che ci ostiniamo a non voler riconoscere come nostri e dunque a pagare. Temo che sia il caso di metterci a leggere non solo i risguardi di copertina e, vivaddio, finalmente provare anche a crescere.