Adesso che la storia infinita sembra stia per finire, e la folla dei gioiosi revenant si accomoda sugli strapuntini televisivi, mi ritorna in mente una storia di tanti anni fa. Sul finire dei ruggenti ’70 il sottoscritto, fresco di laurea e in cerca di un destino più che di un’occupazione, faceva il garzoncello in una piccola ma agguerrita società di consulenza. Uno dei primi lavori riguardava l’organizzazione di una convention di vendita per un brand di largo consumo; il garzonato consisteva nel supportare il lavoro di un consulente anziano di indubbio sapere e competenza ma dal carattere abbastanza sgradevole.
Erano gli anni in cui l’advertising nella costruzione dei commercial sperimentava (o faceva finta di) nuovi linguaggi e nuovi schemi narrativi. Uno di questi, indubbiamente tra i più divertenti, prevedeva l’adozione della comicità surreale supportata da interpreti di grande valore come, uno per tutti, l’attore Paolo Hendel.
Uno dei brand che tra i primi provò a perseguire questa strada fu la pastiglia Valda. Prodotto oggi praticamente sconosciuto, pressoché dimenticato pure dai miei coetanei, la mitica pastiglia Valda originariamente veniva venduta solo in farmacia, una sorta di bon-bon della nonna che manteneva un’aura misteriosa riguardo a non ben specificate virtù medicamentose.
Come spesso accade, gli astuti uomini di marketing della multinazionale Pinco&Pallo decisero che ora di dare maggiore visibilità e dignità alla mitica pasticca: la si tolga dai banconi della farmacia, e la si venda a palate sugli scaffali dei supermarket fu il grido di battaglia. Poco originale, ma molto comune all’epoca. Per sostenere il fausto passaggio fu pianificata una campagna tv decisamente imponente: la piccola pastiglia verde a forma piramidale fu consegnata nelle mani dell’abilissimo Paolo Hendel.
Lo sketch, gli sketch: se non ricordo male furono più d’uno, fu travolgente. Seduto dietro una scrivania da mezzo-busto, l’Hendel ne faceva di tutti colori aprendo le scatolette, o cercando di aprirle, parlando con e del prodotto, afferrandolo, rovesciandolo goffamente sulla scrivania, facendo cadere il contenuto di tutta la scatoletta eccetera eccetera. In una parola – la scrivo in maiuscolo – GIOCANDO in chiave surreal-situazionista secondo la ben nota tradizione Dada che ancor oggi spinge gli sprovveduti mascalzoni in cerca di 10 minuti di notorietà a compiere azioni “creative” come il tingere di rosso l’acqua della Fontana di Trevi.
Paolo Hendel, al contrario dei cazzari neo-Dada, era straordinariamente bravo. Stralunato, assurdo, surreale: ai miei occhi meravigliosamente convincente. Lo spot raccole un grande successo di pubblico, al punto che mi spinsi a magnificare le lodi con l’arcigno consulente senior a cui facevo da portaborse tutto fare. Mal me ne incolse. Squadrandomi dal basso in alto, era piccino quasi come uno dei più rumorosi revenant di cui sopra, mi gelò dicendomi poche ma veritiere parole: non si gioca con i prodotti! Non si gioca con i brand. Questa campagna segnerà la fine della pastiglia; nel migliore dei casi le farà molto male. (In questa, come in molti altre considerazioni mercatistiche, ebbe ragione. Anzi parecchia.)
Cosa c’entra la pastiglia Valda con gli orrendi mesi che ci è toccato trascorrere e con l’insopportabile clangore dei revenant riuniti (provvisoriamente riuniti) a festa? Questa storia mi è venuta in mente pensando alla comunicazione di Matteo Renzi (disclaimer: alla sua comunicazione, non alle sue politiche). In questi mille giorni è stato tutto un crescendo di batture, calembour, motti di spirito, facezie, arguzie, sarcasmi. Al punto che, come già accadde a Bersani, si faceva fatica a distinguere tra il Matteo vero e quello imitato da Crozza, che appunto è il segno dell’inizio della fine: la parodia si sovrappone all’originale, e l’originale diviene una maschera.
A scuola, in ogni scuola di ogni ordine e grado, in palestra con l’istruttore, sui campi da tennis o sulle piste da ski, al pianoforte, al volante di un’auto, a ripetizione di latino, a scuola di tango, cucina, tricot e punto croce (eccetera eccetera) chi ricopre un ruolo da leader deve indicare, come dice la parola stessa, la direzione da prendere. Può farlo in molti modi: in modo mortale, come molti insegnanti di matematica, o luminoso, come in “Capitano, mio capitano!”. Ma mai, mai in nessun caso, il leader – colui che appunto dovrebbe guidare e condurre – può permettersi di GIOCARE. Il leader non deve necessariamente essere serioso. Ma deve essere percepito come serio se vuol essere preso sul serio. Nessuno segue nelle cose serie il simpatico cazzaro della classe (in tutte le classi ce n’è uno: terribilmente simpatico) nessuno copierebbe un compito da lui.
Ho fatto l’insegnante anni e anni fa. Poco e male: nessuno mi aveva insegnato ad insegnare. E soprattutto non volevo fare l’insegnante. Una cosa ho imparato allora: i ragazzi rispettano e stimano chi li fa lavorare, chi li stimola, chi li impegna, chi chiede loro di rispettare in primo luogo se stessi con il lavoro serio. Dopo, ma solo dopo, ci può stare lo scherzo e pure il cazzeggio (ma poco). Per non parlare della serietà degli adulti dei “Corsi 150 ore” che volevano imparare per prendere la licenza media.
Matteo Renzi ha giocato per mille giorni. Voleva confortare e stimolare. Voleva diffondere autostima e ottimismo, orgoglio e fiducia. Che abbia vinto il No, non è poi così significativo. Che i più giovani gli abbiano voltato le spalle, invece sì. L’analisi dei flussi elettorali è più netta e impietosa della fatal pietra del sepolcro di Aida.
Ogni leadership (funzionale, affettiva, culturale, di scopo e persino gerarchica) per funzionare deve esprimere autorevolezza, credibilità, solidità. Quando i bambini giocano, giocano seriamente. E’ il loro lavoro. La pastiglia Valda, come imparai allora, non sbaglia mai.