Il sorriso di Franti

By on Set 27, 2016 in Comunicazione

Confesso, ammesso che le mie confessioni abbiano un minimo interesse, di non aver visto nessuno dei film di Checco Zalone. Ne ha fatti quattro. se non sbaglio. Di non averlo mai seguito su Zelig: nel periodo in cui compariva, avevo smesso di guardare Zelig. Di aver detestato come una zanzara in camera da letto la sua canzone “Siamo una squadra fortissimi”. Confesso che di lui mi piace quasi niente, non il corpo, il volto, la pronuncia. Neppure la mimica m’aggrada. A parte un’apparizione in una libreria Feltrinelli a Bari in cui fingeva una “unrequested” nel corso della presentazione di un libro di De Gregori. Si è messo a cantare “Gli uomini sessuali” costringendo il Francesco al duetto. Irresistibile. Lo Zalone intendo. Pure il testo mi è sembrato intelligente perché cattivissimo. E viceversa.

E con questo credevo di aver archiviato la pratica. Tanto, mi son detto, i grandi cabarettisti (tipo Aldo, Giovanni e Giacomo, Albanese per intenderci) sono geniali nella gag, nella scenetta, nel teatro di dieci minuti. Nel cabaret appunto. Insopportabili al cinema. Perché come il Totti, le loro esili storie geniali non reggono i 90 minuti. I Bulgari, Tafazzi, il sommelier (per non parlare del grande insuperabile Cetto Laqualunque) hanno i tempi fulminanti della gag. Se protratte, stufano come San Remo dopo due minuti.

E invece. L’altro giorno il Pax mi manda su Whatsapp il link dello spot con il bimbo Mirko, quello rompicoglioni sofferente di SMA. Intelligente perché vero. Vero perché cattivo. Nel senso che esprime esattamente tutto l’autentico fastidio che spesso e volentieri i così detti “normali” nutrono nei confronti della disabilità. Senza l’insopportabile patina di buonismo ipocrita e colpevolista che ammorba, tra un adesivo per dentiere e un pannolino per signore che si pisciano addosso in ascensore, le pubblicità così dette di solidarietà sociale: quanti occhioni del negretto bisognoso di quel vaccino che noi orgogliosamente rifiutiamo abbiamo smesso non già di guardare bensì di vedere?

Come diceva quel grande, sono in molti quelli che cercano di farti piangere; assai pochi quelli che riescono a farti ridere. E ridendo pure a pensare.

(Se vi chiedete perché la bontà non funzioni, rileggetevi l’insopportabile “Cuore” a specchio del meraviglioso “Pinocchio”. Confrontate il Gatto e la Volpe con lo stucchevole Enrico, quello che bacia la mano al padre chiedendogli perdono invece di incazzarsi e diventare un adolescente se non vero almeno verosimile; pensate al buon Garrone – Iddio lo fulmini – contrapposto al povero Lucignolo, ai Due Assassini, ai Conigli neri, a Mangiafuoco, a tutto un repertorio di personaggi che raccontano l’ambiguità, l’ambivalenza, i molti vizi e le pochi virtù dell’insopprimibile complessità dell’animo umano… Se insomma pensate alla vita, quella restituita in modo autentico dall’opera d’arte e quella peracottata, finta come uno sputo di plastica, sapete bene quante ombre alberghino nel chiaroscuro dell’animo umano. Ma senza ombra non c’è neppure la luce.)