Ho sempre osservato con interesse l’apparire di una nuova parola. E con altrettanta apprensione. L’ingresso di nuove parole, mutuate da quelle straniere o frutto di invenzione, rappresenta una metamorfosi nel così detto “comune sentire”, un segnale di cambiamento in corso in uno o più settori della società. Le parole, si sa, non sono mai neutre e neppure ecumeniche, il loro uso (e abuso) denuncia immediatamente l’appartenenza culturale, sociale e persino psichica del parlante molto più degli abiti che indossa.
Le nuove parole e i nuovi neologismi sono i messaggeri di un’epoca, un’età o anche solo una stagione. I più anziani non avranno difficoltà, Alzheimer a parte, a ricordare il lessico di trasmissioni come “Drive in” (peraltro molto divertente) che annunciava la stagione del craxismo imperante. E le innumerevoli “parole nuove”, molte delle quali già finite nella raccolta differenziata, del ventennio berlusconiano.
Il farsi e disfarsi del linguaggio è un evento ininterrotto come il lavoro delle maree. Un’incessante portare e sottrarre materiali linguistici che entrando a far parte della nostra vita quotidiana mutano in modo impercettibile il modo stesso con cui interpretiamo i fatti della nostra esistenza. Il grande e non sufficientemente riconosciuto Karl Marx aveva colto nel segno quando riprendendo un’intuizione hegeliana affermava che “il linguaggio è la coscienza stessa”. Ovvero, dimmi come parli e ti dirò chi sei (o chi credi d’essere).
Tra le molte parole nuove apparse in questo scorcio d’anno segnalo quella che mi pare la più emblematica tra i molti possibili emblemi; è il lemma radicalizzarsi (voce del verbo) e radicalizzato, con le sue bravi varianti di avverbio di modo – molto rapidamente, velocissimamente, istantaneamente – riferito al fatto che un individuo apparentemente “normale” possa di colpo (o molto rapidamente) assumere comportamenti criminali e, nell’ordine, sgozzare viaggiatori su un treno tedesco, ammazzare due poliziotti in Francia, sterminare 80 persone sul lungomare in una sera di festa.
“Rapidamente radicalizzato” sulla bocca delle Autorità e delle Istituzioni (con le iniziali maiuscole) esprime la triste impotenza di fronte agli eventi sconosciuti e quindi incontrollabili. Incontrollabili forse perché sconosciuti. Come l’origine della peste nelle riflessioni di quel deficiente di Don Ferrante. Come l’Ebola, la Zika, l’invasione degli ultracorpi, Dracula il Vampiro, o il ragazzo della porta accanto che in una notte di Luna diventa licantropo.
Così, nelle descrizioni a mezzo stampa temo che sempre più leggeremo espressioni del tipo “sembrava una così brava persona… così gentile con tutti, chi l’avrebbe mai detto!”. O anche, “certo era un po’ gay ma perbene ed educato con noi anziani” e via banalizzando il male che, al di là dell’ovvia cornice islamica o islamizzante, non si riesce a contenere e neppure a comprendere. (Non si contiene perché non si comprende?).
Radicale, nelle versioni libero o occupato, radicalizzato e persino radicalizzando, come si dirà di un giovine in rapido corso di. Così tra qualche settimana, quando tutti ma proprio tutti quelli che potranno permetterselo saranno al mare a mostrar le chiappe non poi così chiare, sono certo che avremo modo di udire espressioni del tipo “Vieni qui Agenore, non me lo fare più ripetere, eh? Guarda che se perdo la pazienza mi radicalizzo, eh!”
PS
Pare che in sanscrito “radice” derivi da VARDH-ATI, ovvero “elevare, crescere, prosperare”.