Il guaio con Michele Serra è che scrive sei giorni a settimana sul quotidiano più diffuso e letto d’Italia; sicché le cose che hai pensato tu la sera prima te le trovi scritte il giorno dopo, e oltretutto pure molto meglio di quanto avresti saputo fare. Questo non solo “è giornalismo” (titolo del più prestigioso premio di categoria) ma è anche, se non soprattutto, la manifestazione tangibile delle così dette “affinità elettive”.
Serra è in perfetta corrispondenza di amorosi sensi con una larga, larghissima fetta di persone che hanno compiuto il lungo e faticoso percorso che dalla protesta giovanile li ha condotti al riformismo laico della maturità, la speciale condizione di consapevolezza e disincanto che nonostante tutto non nega il sogno e la speranza. Perché senza sogni e senza speranza non si va da nessuna parte, neppure a lavarsi i denti.
(Un esempio magistrale di assonanza è il pezzo di ieri; Serra suggeriva mestamente al Matteo nazionale di affidare a Fabrizio Barca, l’economista che ha documentato il marcio diffuso nel PD romano il compito di rifondare il partito. Ovviamente non accadrà, ma questa è un’altra storia).
Sostengono in molti che con il web, i minkia social e tutto il resto, il giornalismo sia morto e defunto. Balla ciclopica. Maggiore è l’accesso alla (supposta) informazione, più grande è il bisogno di discrimine. Non basta sapere “cosa”: una volta verificata la veridicità del “cosa”, nel mondo iperconnesso in cui viviamo l’importante si sposta sul “perché”. Ed è questo il compito del giornalismo oggi, dare spiegazioni. Non che sia facile. Però – come recitava un celebre aforisma attribuito praticamente a tutte le grandi firme di cinquant’anni fa – “è molto meglio che lavorare”.