La morte di Giacinto Pannella in arte Marco darà origine a una quantità di parole che i dialoghi, presumo concitati, sulla torre di Babele erano sussurri al confronto; coraggio, ci attendono giorni e giorni di cicaleccio mediatico, tornei di santificazione a cadavere caldo, com’è nell’ipocrita costume di casa.
Le parole sono importanti, diceva giustamente quel tal personaggio di Nanni Moretti. Al punto che non ci facciamo più caso. Eppure sono loro (e non gli occhi) lo specchio dell’anima. (Ricordate adesso, nel frastuono dei coccodrilli pre-confezionati da mesi, le parole – il fiume di parole – che usava Pannella? Il loro impeto, la loro violenza evocativa, i loro eccessi demagogici, a volte. A volte e pure spesso.)
Ieri notte nel tepore del mio lettino ho letto l’intervista di Ezio Mauro a Giovanni Bazoli, come Pannella un altro dei grandi vecchi del nostro paese. Un pezzo giornalistico molto interessante, certamente assai più del coccodrillame dedicato al leader radicale che per definizione non intendo leggere: il tempo è poco (il tempo è sempre meno).
Bazoli ci fa comprendere quanto contino le relazioni tra persone, non necessariamente intese in senso parassitario o para-mafioso; e come (e quanto) siano sempre i singoli, gli individui che eccellono (nel bene come nel male) a fare la differenza. Con buona pace del ruolo delle pur famose masse popolari .
L’ultima risposta mi ha particolarmente colpito. Ezio Mauro chiede a Bazoli se dopo 34 anni di banca si assolve o meno. La risposta è questa. “Vede, essere credenti significa sentirsi sempre inadeguati rispetto ai compiti che la nostra coscienza ci indica, cioè peccatori. Ma, nello stesso tempo… la fede ci aiuta ad avere fiducia in noi stessi e negli uomini. Tutti. Perché credenti o non credenti, per tutti la vita è un mistero”.
Essere inadeguati cioè peccatori dice Bazoli. In quel cioè (termine con funzione dichiarativa ed esplicativa) che percepiamo la distanza (la differenza) tra una cultura e un’altra, tra un’Italia e un’altra: tra il mondo libero e libertario di Marco Pannella e quello cattolico, tradizionalmente meno disposto a riconoscere l’assoluta liceità delle scelte personali in tema di stare nel mondo: ad un laico non verrebbe mai in mente di creare un legame di causa / effetto tra la propria inadeguatezza, i propri limiti e il peccato. Come se l’essere inadeguati costituisse una colpa inalienabile e non invece l’essenza stessa dell’umanità, della sua inevitabilmente limitata finitudine.
Sbaglierò, ma non riesco a non pensare che dietro a questa idea del peccato stia da qualche parte acquattato immantinente il reato. Le parole, purtroppo, non sono mai abbastanza leggere.