E’ successo da un giorno all’altro. I nomadi che con ineffabile sedentarietà costellavano il paesaggio urbano, sono improvvisamente spariti. Basta percorrere una qualunque delle vie che tradizionalmente presidiavano, per constatare che non c’è più traccia di loro davanti alle postazioni destinate a rinforzare simbolicamente i più arcaici sensi di colpa in chi mangia, ha mangiato, dà per scontata la nutrizione periodica. Insomma, davanti alle panetterie, bar tabacchi, alimentari in genere, la vecchia laida sdraiata a terra non porge più la mano; neppure la più giovane (bimbo in braccio come da copione) sollecita il passante con il rituale “ciao capo”. Merito di Salvini parrebbe che no: per fortuna nostra e del pur valido popolo Rom, al momento non risulta ancora sindaco di Milano. Segno ultimativo di crisi come la fuga – mi perdonino i sinti per l’inevitabile accostamento – dei topi dalla nave che affonda? Nel variopinto micro-marketing del senso di colpa che sollecita la facile pietà di chi con pochi spiccioli si lava la coscienza, si affaccia un nuovo soggetto, un attore che innova le tattiche e la scenografia della recita più antica del mondo.
E’ giovane, nerissimo di pelle, imponente di fisico e di stazza, ben attrezzato: giubbotto dai colori sgargianti, felpa con cappuccio calato sulla capa a prescindere dalle condizioni climatiche (iconografia post-francescana del miserello al freddo e al gelo?) calzato da sneaker di penultima generazione, borsello (sic, che caduta di stile) portato a tracolla. In testa, l’attrezzo fondamentale della nuovissima questua: il cappello rigorosamente da baseball che viene calato di capo e agitato vigorosamente per sollecitare il passante.
Sono giovani, sono nerissimi, sono vigorosi. (Confesso che al loro primo apparire, agitato da un impulso non so quanto imbecille o cubo-futurista, non sono riuscito a trattenermi; era forse la terza volta che passandogli davanti nel sacro tragitto casa-edicola si scappellava porgendomi sotto il naso l’orrendo aggeggio: odio il baseball quanto chi lo indossa impropriamente, magari sessantenne e calzandolo pure al contrario. E’ stato allora che l’ho apostrofato chiedendogli se non si vergognasse grande e grosso com’era a chiedere la carità, indicandogli due vetrine più in là il cartello del kebabbaro fedele ad Allah che cerca chi gli faccia consegne.)
Così, giorno dopo giorno, un brutto pensiero mi si affaccia alla mente. Dio non voglia, ma comincio a pensare che neppure loro come il pur valido popolo Rom – i nomadi perfino più stanziali del pur abilissimo Chatwin, genio delle lunghe permanenze a scocco nelle magioni degli amici più chic – abbia voglia di lavorare. E’ un sospetto alimentato dal fatto che i ragazzoni si limitano a darsi il cambio davanti alle panetterie, timbrando che equa regolarità un immaginario cartellino; diversi anche in questo dai loro consimili che in Città Studi dall’alba al tramonto, col sole o con la pioggia, tentano di vendere la loro improponibile merce.
Non è di loro che mi stupisco, ma di noi. Degli studenti pure male in arnese che gli allungano qualche soldo; delle madame rintronate dagli anni e dalla stupidità; degli anziani benestanti che sganciano il resto uscendo dal negozio e si tolgono l’impiccio. Non sono un esperto di carità e neppure di misericordia. In uno Stato civile e moderno quale ci professiamo, a nessuno dovrebbe mancare il cibo e neppure un tetto sulla testa. Proprio a nessuno. Ma quel cibo frutto del diritto delle genti e dell’umanità, dovrebbe essere pagato con il lavoro, qualsiasi lavoro ritenuto socialmente utile. Le strade e i muri di Milano fanno pietà. A me infinitamente di più dei professionisti della questua.