Di cosa parliamo quando parliamo d’amore

By on Apr 16, 2016 in Comunicazione, Contemporaneità

Fateci caso, quando si è imparato a voler bene si vuole bene per i difetti mica per i pregi. Funziona per le persone, i luoghi, le città e persino i paesi. Si vuole bene al Giappone, alla Tedeschia o alla Francia mica perché sono paesi fighi. Anche se all’inizio siamo attirati dalla grandezza, o dalla sciagura, dal fascino, o dall’epica. O dalla forma dei salsicciotti.

Poi, man mano che la seduzione invade gli organi vitali e poi s’incista di fino nelle cellule, sono i limiti, i difetti, finanche i crampi mentali, che ci rendono per sempre prigionieri i un rapporto d’amorosi sensi. Così, nonostante l’orrore insuperato e ben nascosto per ragioni politiche (tutto perdonato ai nazi-Jap nel lontano ’45: serviva un puntello antisovietico laggiù a Est) come non si fa a non amare il Giappone coi suoi trenini riempiti dagli omini pigiatori in guanti bianchi, le sue corporazioni, il vergognoso antifemminismo, per tacer del resto? Come non si fa a non amare la rigida, precisetta, tontolona Tedeschia, terra di nibelungiche tragedie? E, ultima ma giammai ultima, chi sano di mente non prova amore per cuginetti transalpini, in assoluto i più convinti assertori della propria superiorità nell’universo mondo?

Non è invece amabile l’Austria, terra titolare del miglior ratio europeo popolazione/numero di volontari SS. Paese di solido e antico antisemitismo, se la sfanga più che egregiamente nel triste dopoguerra europeo per le solite ragioni antisovietiche: la cortina di ferro scesa allora cadeva proprio dieci centimetri al di là dei suoi confini: giocoforza ci toccò iscriverla nel novero dei “buoni”. (A chi avesse qualche dubbio sulla ottusa ferocia dei cattolicissimi montanari del Tirolo e della Stiria, consiglio la lettura di qualche pagina di Thomas Bernhard). Paese di furbetti l’Austria, bravi – come recita il noto aneddoto – a far passare Beethoven, notoriamente nato a Bonn, per austriaco; e il caporale Hitler, notoriamente nato e cresciuto in Austria, per tedesco. Paese sempre in bilico tra fascino e fascismo, la piccola astuta Austria adesso vuol chiudere le frontiere al Brennero, così il problema dei migranti son cazzi della Grecia e nostri.

Neppure la Turchia è amabile; ma a differenza dell’Austria, son davvero ben pochi i doni fatti al mondo. Forse i datteri, forse i pistacchi, forse alcune metafore tipo “fumare come un turco”. Altro non so, non ricordo: qual è il primato dell’arte, della scienza, della cultura turchia? Molte braccia per le fabbriche di Tedeschia, molta ignoranza fra i monti d’Anatolia; molta violenza ieri ed oggi nella terra subornata da un dittatorello teocratico fortemente impegnato nello smontare l’opera di Mustafa Kemal Atatürk, orgoglioso padre di una patria laica rimessa in piedi dopo le scoppole del 1918 che portarono al crollo dell’impero ottomano. Del massacro degli armeni – una milionata – zitti tutti, ieri come oggi, prima durante e dopo, per non parlar dei curdi.

Dopo questo viaggio triste tra Austria fascista e Turchia neo-ottomana, ritorno alla tesi di più sopra: ci si innamora per i pregi e si ama per i difetti. Chi mi conosce sa quanto amo la Francia. La sua lingua. I suoi scrittori. I suoi paesaggi. La sua cinica, disinibita gioia di vivere: pare che durante l’occupazione nazista a Parigi si vivesse comunque assai bene, contrariamente ala mestizia delle altre capitali occupate. L’amata Francia, il paese che può vantare crediti di vastità inesigibile nei confronti del mondo intero, la terra di liberté, égalité, fraternité, oggi per mano di un presidente che della grandeur non riesce neppure ad avere il sentore, tira per soli 1,1 miliardi di commesse militari un bel calcione all’idea d’Europa. Sono tanti 1,1 miliardi, sono pochi? Quanto vale l’idea di un’Europa solidale, se non addirittura federale?

Così, mentre l’Italia si avvia a compiere un atto dovuto di dignità verso la famiglia Regeni e soprattutto verso se stessa, il piccolo presidente sgradito ai francesi e pure probabilmente a se stesso visto il suo fallimento politico, si avvia ad offrire una sponda ai nuovi faraoni. In buona compagnia di altri paladini del rispetto e della moralità, quei signori d’Arabia che il regno dell’ISIS l’hanno già realizzato nei loro deserti.

Scrive il New York Times nei giorni scorsi: “Come gli Stati Uniti, la Francia e il Regno Unito, anche l’Italia contava sull’Egitto per fermare l’espansione dello Stato Islamico e trovare una soluzione al caos della Libia. L’Italia è anche uno dei principali partner commerciali dell’Egitto. Ma l’indignazione pubblica in Italia per la morte di Regeni e l’indagine congiunta con le autorità egiziane che non sta andando da nessuna parte sta costringendo il presidente del Consiglio Matteo Renzi ad agire”.

L’articolo continua: “L’Italia ha chiesto agli altri governi europei di mettere sotto pressione l’Egitto. Martedì scorso il governo britannico ha chiesto un’indagine completa e trasparente sull’omicidio di Regeni, ma lo ha fatto solo dopo che una petizione firmata da più di 10 mila persone lo ha costretto a una risposta”.

E infine il giornale americano così conclude: “C’è stato un vergognoso silenzio dalla Francia, il cui presidente François Hollande andrà al Cairo lunedì per firmare un contratto da 1,1 miliardi di dollari in armi”.

Continuerò a voler bene alla Francia per i suoi difetti e nonostante i suoi pregi. L’idea di Europa, più che l’Europa stessa, continua invece ad essere un bel sogno. Peccato che ai sogni non si possa voler bene più che tanto.

 

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