La prima volta che la sentii pronunciare mi fece venire in mente Californication, il settimo album dei Red Hot Chili Peppers, l’allora band di culto dell’ex corta che mi somiglia. Ma il significato di gamification è totalmente altro dall’album spirituale ed evocativo che la band pubblicò nel lontano 1999. L’ottima traduzione suggerita da Wikipedia propone il neologismo “ludicizzazione”, ovvero “l’utilizzo di elementi mutuati dai giochi e delle tecniche di game design in contesti esterni ai giochi. Il termine gamification è stato introdotto per la prima volta in pubblico nel febbraio 2010 da Jesse Schell, un famoso game-designer americano, alla “Dice Conference” di Las Vegas”.
Confesso che sul ruolo e sull’importanza del gioco nella storia ero rimasto fermo ad un classicone degli anni dell’università, quel “Homo Ludens” in cui il medievista olandese Johan Huizinga dimostra come il gioco vada inteso quale fondamento di ogni cultura dell’organizzazione sociale. Fu M.E., l’astuto brianzolo maniaco dell’innovazione tecnologica e del business in quanto tale, a spiegarmi che l’incredibile sviluppo dei computer (riduzione del peso e crescita esponenziale della potenza) dipendesse non tanto e non solo dalle applicazioni militari, quanto dal gaming vero e proprio.
Più si gioca con il computer, e più il cazzabubbolo deve essere veloce e riprodurre in modo realistico la realtà; per farlo deve essere sempre più potente; più è potente e più evoluti saranno i giochi, le simulazioni, gli effetti; più evoluti i giochi, più grande il numero dei giocatori e più interessante il ritorno economico. Ovvero milioni e milioni di milioni di fantastilioni. La rivoluzione digitale come la conosciamo oggi pare nasca da lì. E ora, ennesimo caso di serendipità, ne beneficiamo tutti non solo i ragazzini brufolosi che smanettano per ore alla consolle.
Perché si parla (e tanto) di “gamificazione” delle procedure e dei processi, è facilmente intuibile. La nostra vita quotidiana è costellata da una quantità di azioni obbligatorie già di per sé noiose rese ancora più indigeste dalla complessità idiota dei burocrati che le hanno disegnate. Il gioco è invece un’azione volontaria che compiamo allo scopo di procurarci piacere e svago.
La tristezza non sta tanto nella gamification che prova a indorare la pillola (“Con un poco di zucchero la pillola va giù”) quanto al fatto che l’umanità trascorra gran parte della propria vita costretta dai lacci e lacciuoli della stupidità. La parte più fortunata, beninteso. L’altra, come sappiamo, è impegnata a giocare tra le onde e il filo spinato.