Oggi o stato ha squola (ma non mi sono imparato molto)

By on Ott 4, 2015 in Comunicazione, Contemporaneità

L’altro giorno ho preso la mia beneamata VW Golf Gti che inquina più di una petroliera incagliata nel Golfo (ma dopo lo scandalo delle finte vergini americane voglio vedere chi oserà fermarmi) per andare a intervistare un imprenditore dell’automazione industriale. L’automazione industriale per chi non lo sapesse, ma dubito che i miei quattro affezionati lettori non lo sappiano, è quella cosa che applicata ad un qualsiasi processo produttivo o distributivo (dalla pasta all’uovo alle palette dei reattori, dalle bottiglie di birra alle etichette dei pacchi postali) migliora la qualità dei prodotti, riduce i costi e i rischi di rottura (del Airbus 747 ma anche del cartone del latte) salvando nel contempo il cervello di un tot di persone altrimenti costrette ad eseguire a mano le medesime ispezioni. Un esempio perfetto di “fine del lavoro” per dirla alla Rifkin. (Come occupare i disgraziati che prima dell’avvento dell’A. I. stavano alla catena a fare mestieri disumani e degeneranti è un’altra storia).

Il signore con il quale avevo appuntamento, lo chiamerò con le sue iniziali ES, è un imprenditore di quelli che piacciono un casino a Riccardo Luna, uno a metà strada tra lo startupper (che le aziende le inventa) e il manager vero, quello che le aziende le fa crescere e fiorire, che è poi la parte più difficile.

Un’azienda che fa automazione industriale si distingue immediatamente per tre caratteri ontologici:

Sono queste le imprese che hanno saputo navigare il mare in tempesta della crisi stando a galla senza eccessive difficoltà; sono queste le imprese italiane che vanno a testa alta in tutto il mondo, non solo quelle del formaggino di capra balbuziente o della pera monaca. Sono le imprese che trasformano la ricerca e la sperimentazione in soluzioni tecniche capaci di aiutare le aziende manifatturiere a stare su mercati sempre più complicati e competitivi. Soluzioni che intervengono radicalmente sulle solite tre benedette variabili: tempi, costi, qualità (non necessariamente in quest’ordine).

Delle cose che ho ascoltato da ES (del suo progetto basato sulla convergenza tecnologica, delle iniziative imprenditoriali in Cina e in Malesia) parlerò un’altra volta. L’oggetto di questo post riguarda invece più direttamente e più da vicino tutti noi; o meglio tutti coloro che poco o tanto fanno affidamento sulle logiche del mutualismo (il concetto-base su cui poggia qualsiasi sistema di Welfare) per campare dignitosamente una volta giunti al termine del ciclo lavorativo. (Per non parlare del sistema-paese, che vive o defunge in funzione di queste stesse variabili).

Il tema sono i giovani e la disoccupazione giovanile. La scuola e la preparazione che la scuola è in grado di dare a questi giovani.

“Mi chiede se abbiamo bisogno di nuove risorse?” esclama ES salendo in macchina

Non è una domanda in risposta alla mia, ma una premessa.

“Certo che sì!” Accende il motore e fa retromarcia

“Da quando abbiamo deciso di costruirci in casa anche le parti meccaniche degli impianti – sono tutti pezzi su misura – oltre agli informatici di cui abbiamo sempre bisogno, cercavo un meccanico o due. Un perito meccanico giovane, appena uscito di scuola, sveglio e da formare”

Tento inutilmente di interromperlo, ma è come cercare di fermare un fiume in piena

“Il risultato è un disastro, un vero disastro

In che senso un disastro?

A quanto ammonta la disoccupazione giovanile? Siamo al 40%? Bene, noi abbiamo bisogno di periti meccanici e di informatici come il pane. Ci servono perché per il nostro lavoro “su misura” preferiamo farlo tutto in casa”

Non mi dirà con non li trova?

“Trovarli li trovo eccome. Peccato che quando gli facciamo il colloquio non passino l’esame…”

Non è che, forse, siete troppo esigenti, azzardo

Fermo al semaforo si gira e mi fissa sgranando gli occhi

Esigenti? Questi non sanno le tabelline, capisce? Le tabelline! Non sanno fare a mano una moltiplicazione di due cifre! Se chiedo loro la superficie di un cerchio di cento metri di diametro mi rispondono… 100! Ha capito, 100! Tanto il cerchio è tutto uguale dicono… Come faccio a insegnarli tutto io da capo? E poi quando, in quanto tempo?!?”

Ho capito e ammutolisco di imbarazzo e un po’dalla vergogna: ho fatto per po’ di tempo l’insegnante tanti anni fa, e so di cosa parla

“E’ il problema non è solo che gli insegnanti se ne sbattono. Se vuoi studiare, bene, dicono. Sennò stai pure lì tranquillo a scaldare il banco e non fare casino. Il problema sono le famiglie che arrivano al punto di minacciare insegnanti e presidi…”.

Le “famiglie” (ma cosa mai vorrà dire “famiglia” in quest’Italia confusa e spantegata come un gelato multigusto al sole d’agosto?) vogliono la promozione. Invece dovrebbero battersi per l’istruzione e la formazione. E controllare con fermezza e ferocia se necessario, che anche per gli insegnanti e i presidi sia questo l’obiettivo irrinunciabile. E alzare le barricate se per caso un insegnante non è all’altezza del suo compito (per caso, eh?).

A chi mi dice che senza passato non c’è futuro, mi viene voglia di rispondere che anche senza un buon presente non ci sarà nessun futuro.