Avere trent’anni e vivere a Berlino nel racconto di Giulio Gherardi, il nostro corrispondente in Germania. Questa volta l’argomento sono le sottili differenze culturali tra noi e loro nel classico scontro “sostanza vs. apparenza”. (Una bambolina in premio a chi indovina il vincitore).
Viaggiare, nel senso migratorio del termine invece che in quello piu’ comunemente turistico, fornisce il tempo e le occasioni propizie per scoprire alcuni interessanti dettagli sugli usi e costumi di una società, consuetudini che ne rivelano alcuni aspetti con la sintetica chiarezza di un aforisma. Una di queste occasioni è sicuramente il colloquio di lavoro.
Selezionare il personale significa prima di tutto giudicare a colpo d’occhio: uno sguardo alla persona, uno al curriculum e il candidato si trova già nella pila destinata al manager di turno o in quella diretta al cestino della carta. Applicando un po’ di reverse-engeneering e cercando di capire cosa guarda chi giudica, oltre a migliorare non poco le proprie possibilità di essere assunto, si possono fare delle interessanti supposizioni sulla psicologia di chi abbiamo davanti.
Facendo solo un migliaio di kilometri all’interno della vecchia e in qualche modo unita Europa, ho visto il focus dell’attenzione di chi cercava di giudicarmi come possibile dipendente spostarsi in maniera interessante.
Partendo da Milano, mia madre, come ogni brava mamma italiana, e nella fattispecie milanese, si è subito preoccupata di assicurarsi che avessi un buon numero di cravatte di colori e stili adatti da abbinare alle giacche e alle camicie con cui mi sarei presentato ai colloqui di lavoro, ovviamente da scegliersi accuratamente in base al tipo di azienda e al clima del giorno. “Non vorrai mica presentarti con una giacca di lana in una giornata di sole? Che figura ci fai?” (Il problema della temperatura corpora invece non si pone, visto che per via degli arcani misteri dell’aria condizionata negli uffici fa in media piu’ freddo ad agosto che a gennaio.)
Questo genere di preoccupazione è del tutto razionale a Milano, una delle capitali mondiali della moda dove il carattere e la serietà professionale di una persona vengono naturalmente associate al suo abbigliamento. Chiunque abbia lavorato in ufficio a Milano può immaginare facilmente cosa succederebbe se provasse ad aggirarsi per i corridoi in ciabatte. A Berlino, ho scoperto, le cose sono leggermente diverse.
Una mattina d’inverno esco di casa per andare a un colloquio. Si tratta di una start-up quindi seguendo la logica milanese opto per una mise abbastanza sportiva: camicia, maglione, jeans scuri e scarpe di cuoio. Mentre salgo le scale dell’ufficio vengo assalito dal dubbio: avrei fatto meglio a mettere la giacca?
Il dubbio dura circa una ventina di secondi finchè il capo del personale di questa mini azienda mi viene a salutare. Da bravo milanese in un decimo di secondo ho eseguito uno scan completo del suo abbigliamento: scarpe da skateboard con suola consumata di lato (probabilmente ci va davvero in skateboard), pantaloni di velluto a coste rossi oversized, camicia a scacchi rossi e neri generosamente sbottonata sul petto a mostrare il visone naturale e (colpo di grazia) cappello di lana da sci con le nappe. Esco dal colloquio un po’ frastoranto, il mio senso di ragno da milanese mi sta gridando: “questa non e’ gente seria”. Più tardi mentre torno a casa razionalizzo: è una start-up gestita da 10 ragazzi un po’ nerd: è normale che si vestano in modo strano. In aziende più grandi non sarà certamente così.
Vero, ma fino a un certo punto. Nei successivi colloqui in giro per aziende berlinesi, pur non raggiungendo i livelli della prima ditta, i vestiti dei miei interlocutori hanno continuato a stupirmi: amministratori delegati con cappellino da baseball in stile hip hop, manager in ciabatte, responsabili finance con giubbotti in stile metal anni ’90 appesi allo schienale della sedia… ce n’è per tutti i gusti.
Cosa ne dobbiamo dedurre? Che i tedeschi non capiscono nulla di moda? Forse sì, ma non è questo il punto: semplicemente possono pensare che tu sia vestito da pirla, ma questo per loro non è direttamente collegato con la tua professionalità. Quello che invece li colpisce allo stomaco come una cravatta beige su una camicia grigia è un curriculum senza certificazioni.
Hai studiato ingegneria al Politecnico? Bene, ma dov’è il certificato di laurea? E le lettere di raccomandazione dei tuoi precenti datori di lavoro? Hai fatto volontariato nell’estate del 2005? Ottimo, cosa pensava di te il tuo responsabile? Hai un suo contatto? Per non parlare delle competenze. Programmazione web è troppo generico e javascript/html/css non basta; per ogni programma, framework o paradigma di programmazione è il caso di specificare un livello di competenza e numero di anni di esperienza.
Questi piccoli accorgimenti che ho appreso ‘sul campo’ hanno contribuito a cambiare drasticamente le sorti dei miei colloqui di lavoro: le mie competenze erano molto richieste e la mia esperienza qualificante, ma il mio curriculum sintetico di una pagina e mezzo tutto compreso, dava una brutta impressione. Un po’ come se in Italia mi fossi presentato a un colloquio in banca con una camicia verde mela e una cravatta rosa: difficilmente mi avrebbero preso sul serio. Così ora camicie e cravatte riposano tranquille nell’armadio, mentre il mio curriculm di 12 pagine fa bella mostra di sè su linkedin, per la felicità dei recruiter berlinesi. E del mio ferro da stiro.