Appartengo per storia, educazione, snobismo e dna, alla schiera degli antipatizzanti. Quelli che godono come ricci a pindacciare più che a simpatizzare. Quelli che sono quasi sempre contro, che amano sentirsi minoranza, poichè la minoranza – ancorchè a volte pure minorata – è per definizione immensamente più chic delle masse popolari criminaloidi di pasoliniana memoria. Una tendenza che se non adeguatamente contenuta può addirittura portare alla perversa pratica della schadenfreude, il piacere provocato dalle disgrazie che capitano ad altri.
Una tendenza di natura che gli ultimi vent’anni di sgoverno del paese hanno irrobustito in modo abnorme, legittimando oltremodo pensieri e atteggiamenti di autodifesa; sicchè di fronte ai disastri del dilettantismo rapace di matrice berlluscoide, diventava automatico guardare oltre, pensando (molto spesso a ragione) che “altrove” (a Parigi, Seattle, Marsiglia o Berlino) tutto fosse meglio. Meglio pensato, meglio fatto, meglio condiviso, meglio esperito.
L’esterofilia, il percuotersi il petto con il pugno, il cingersi i fianchi con il cilicio dell’autocritica feroce, è stato un atteggiamento tipico, e lo è tutt’ora, di certa sinistra patriottica in sincera ambascia per le sorti del paese. Persone perbene avvilite sino alla depressione dalla rapacità, dal pressapochismo, dall’incapacità che hanno prodotto sciupio e rovina; crollano i ponti, cadono i balconi rifatti all’Aquila nell’assordante vocio del finto patriottismo, della retorica del ghe pensi mi, dei cinquantotto governi diversi (diversi in che?) succedutisi negli ultimi cinquantadue anni. Un paese che non cambia. Bloccato da veti, ricatti, corporazioni. Un paese senza. Dignità, coraggio, visione, etica, progetto, coscienza di sè… (l’elenco potrebbe durare altre tre madeleine).
Così quando stamattina mi sono avventurato per le strade di Milano destinazione medico-diagnostica (allarme rosso, l’ipocondriaco fifone che alberga in me aveva preso ad agitarsi come le fronde al vento di primavera) salire sul metrò Linea 5 destinazione Domodossola, è stata una sorpresa da assunzione di sostanze psicotrope.
Il treno, perchè anche se leggero sempre di treno si tratta, arriva in banchina e si piazza millimetricamente davanti alle anti-porte della stazione. Si sale e si parte senza una vibrazione. Poi, sollevando lo sguardo verso la testa del vagone, la scoperta: manca la cabina del conducente e al suo posto un’ampia sezione vetrata mostra lo scorrere della galleria. Gesù, è automatico, è tutto automatico! Come a Tokio. (Ed è pure pulito, come immagino Tokio sia).
Il treno corre, rallenta un poco prima delle curve, piega con delicatezza attraversando come una nave nella notte le stazioni ancora chiuse. Momentaneamente placata l’ipocondria mi abbandono completamente al piacere infantile della corsa, mentre gli altri esseri nei vagoni se ne stanno chini a smanettare sui loro minchia-smart, del tutto privi di stupore e di sorpresa. (Possibile che la bellezza dia assuefazione e provochi apatia?)
Uscito nel sole di maggio a ridosso di corso Sempione, altra sorpresa: la città appare improvvisamente bella, pulita, moderna. I luoghi che ben conoscevo e non vedevo da tempo, rinnovati e funzionali. Il volume del grattacielo nell’ex area della Fiera imponente e, finalmente!, di sapore europeo.
La città è cambiata. La città è piena di energia e di vita. La città tanto vituperata nei tristi anni dell’occupazione affaristico-provinciale, sembra rinata. Il progetto CityLife che porta la firma di Isozaki, Libeskind e (dell’orrida) Zaha Hadid poteva essere meglio? Più verde? Più bello? Più “Renzo Piano” (quello che vince i concorsi nei luoghi più importanti e chic del mondo ma in Italia nisba chissà perchè) e meno archistar? Forse.
Ma queste domande, anche queste domande, appartengono ad un’altra delle categorie che dobbiamo dismettere: il meglismo, fratello deficiente di quell’altra malattia che come la sifilide attacca il cervello, il benaltrismo. Esempio: si mette a posto un’aiuola con l’aiuto dello sponzor? Si poteva fare di più, ci vuole ben altro, non c’è una visione globale del progetto, eccetera eccetera.
Questa città avvilita dai deficienti che sporcano i muri, dai razzisti che eccitano le menti deboli, dai ladri di ogni ordine e grado, di colpo oggi mi sembra un po’ Seattle, un po’ Parigi, Berlino o Marsiglia. Non c’è il respiro dell’oceano e neppure le sue piogge. Non ci sono le parigine très-chic, non c’è l’aroma free punk del muro caduto, e neppure il mare. Ma a proposito d’acqua, pare che la Darsena ripulita e derattizzata valga il viaggio. Insomma, che dire se non viva Milano e viva la vita?