Italiener in Berlin 2 / a proposito di immigrazione

By on Apr 28, 2015 in Comunicazione, Contemporaneità

Avere trent’anni e vivere a Berlino. E’ il tema di cui si occuperà con cadenza variabile Giulio Gherardi, il nostro corrispondente da Berlino

Immigrazione, un problema di gestione delle risorse umane

Da quando la cronaca ha riportato in prima pagina il tema dell’immigrazione, giornali,  blog e pagine Facebook traboccano di commenti a riguardo. Commenti che vanno dal morale/sentimentale (non uso la parola buonista, ormai in quarantena dopo l’uso smodato e spesso casuale a cui è stata sottoposta in questi giorni) al becero/salviniano, in un rincorrersi infinito di prese di posizione che, condivisibili o meno, hanno tutte il difetto di essere molto “di pancia” e poco “di testa”.

La Germania è ormai da molto tempo meta di massiccia immigrazione da parte di mezzo mondo (anche noi italiani contribuiamo non poco al melting-pot locale). Girando per Berlino è praticamente impossibile non rendersi conto della quantità e della varietà di persone che sono arrivate negli ultimi decenni: il mix di lineamenti, lingue, vestiti e cibi è evidente (anche se in proporzione diversa) nella ricca e centrale Mitte come nell’economica e periferica – ma di recente molto cool – Neukölln; questo dona alla città una moltitudine di sfaccettature senza le quali Berlino non sarebbe Berlino.

Ora però la macchina organizzativa dell’integrazione tedesca sembra essersi inceppata di fronte al flusso di rifugiati proveniente dall’Africa nell’ultimo periodo. Tra le varie analisi che ho sentito in proposito (e vivendo con una giornalista ne ho sentite parecchie) una mi ha colpito per la sua logica: si tratta di un problema di HR, ovvero di gestione delle risorse umane.

I rifugiati – piaccia o non piaccia ai vari Salvini e Le Pen di mezza Europa – arrivano e continueranno ad arrivare. Arrivano in Europa senza niente: senza soldi, senza documenti e soprattutto senza una comunità di connazionali che li accolga e li aiuti ad inserirsi, come succedeva e succede per la maggioranza dei migranti.

Il governo che li accoglie provvede (quando va bene) alle loro esigenze primarie, ma qui si ferma; i migranti non vengono inseriti nel tessuto sociale, vengono visti come un costo: persone da sfamare e da alloggiare. Nessuno però si preoccupa di capire chi sono: hanno un titolo di studio (in molti casi sì)? Sanno fare un lavoro? Quale? Che lingue parlano? Nessuno lo sa.

Allora, forse se all’immigrazione oltre all’antiterrorismo (sacrosanto) ci fosse anche la sezione “risorse umane”, potremmo cominciare a capire non tanto cosa possiamo fare noi per gli immigrati, ma cosa possono fare loro nella società in cui sono arrivati. E quindi come possono aggiungere un altro ingrediente a quel calderone di culture che è l’Europa. Rendendo, tra l’altro, Berlino ancora un po’ più varia e interessante.