Corsi, ricorsi e concorsi (di colpa)

By on Mar 23, 2015 in Filosofia

Seduto sulla mia poltrona giallo Van Gogh rumino la mia consueta macedonia filosofica passando con serena incoscienza dall’ultimo dialogo tra Paolo Flores d’Arcais e Maurizio Ferraris (Micomega 2/2015) sul nuovo realismo, al saggio di Ferraris sul Kant (Goodbay Kant!, Bompiani) per atterrare voluttuosamente sul “Sant’Agostino” di Carlo Chiurco. Un vagabondaggio mentale all’insegna della chiarezza espositiva e della facilità di lettura (da non confondersi con la facilità di comprensione). Una festa, insomma. Pura e semplice ingordigia, bulimia infantile ispirata dal fatto che gli autori citati, a differenza di molti stimati professionisti del bla-bla filosofico, hanno realmente delle cose da dire e le dicono in modo chiaro e comprensibile. Questo rende accessibile la lettura e al tempo stesso la complica: il pensiero comunicato in modo chiaro e distinto ti costringe a pensare, compito notoriamente faticoso e sgradito ai più. Quando invece la filosofia cessa di occuparsi di oggetti che fanno parte del reale, si trasforma in filastrocca per iniziati, tiritera scombinata come le preghiere in latino biascicate dalle vecchie analfabete della mia infanzia.

Perchè è necessario riflettere sulla storia della filosofia e più in generale sulla storia della cultura? Questa domanda, sia pur non in modo così articolato, me la pose al telefono l’amico UC, un signore che nonostante la banalità dei tempi si ostina ad ostentare un’intelligenza sarcastica quanto spumeggiante, incuriosito del fatto che la menassi tanto con Heidegger Martin, il mascalzone di Meßkirch.

Bisogna studiare filosofia e in particolare la storia delle idee, perchè è la filosofia in quanto “scienza generatrice dei pensieri dominanti” (la definizione è mia) a segnare e contraddistinguere l’intero modo di pensare e quindi di vivere, di un’epoca, una civiltà, una società. A puro titolo di esempio, basti pensare ai seguaci dell’ISIS che, bontà loro, si rifanno ad un (modestissimo) sistema di pensiero del VII secolo nel tentativo di modellare (e rimodellare) la realtà e con essa il mondo.

Mondo che spesso è paradosso. E’ a un signore nato nel 354 dc nell’odierna Algeria chiamato Agostino, figlio di Monica a sua volta poi divenuta santa, un uomo scuretto di pelle nonostante i pittori nei secoli si affannassero a riprodurlo come neanche un norvegico, il pensatore a cui massimamente dobbiamo il fatto che per circa mille anni, non bruscolini, nel buio mondo occidentale di scienza non si parlasse più. Del resto, che bisogno c’era? Secondo Agostino, geniale retore pagano divenuto cristiano in quel di Milano per influsso di Ambrogio, poichè il mondo è stato creato da Dio dal nulla secondo leggi e qualità perfette, l’indagine umana sulla natura è (altrettanto perfettamente) inutile. Chiusa la baracca e riposti i burattini, verrebbe da dire: tutti zitti e buoni a vangare la zolla, pronti a servire il signore terreno, di norma analfabeta come le anime a lui sottoposte, in attesa di incontrare quello celeste.

Solo nel XII secolo la ricomparsa dei testi greci, giunti in Europa non per miracolo ma grazie alla mediazione culturale araba, toglierà alla natura il manto (la cappa?) di sacralità con la quale Agostino l’aveva imbozzolata. O, per meglio dire, imprigionata. Gli Arabi, sì proprio loro.

Sono gli studiosi Arabi che ci aiutano ad uscire dal tombino buio e puzzolente in cui era precipitata la cristianità d’Europa. (Un interessante contributo sui rapporti tra cultura Greca e mondo Arabo lo trovate qui.) Sono gli Arabi intorno al Mille, secolo più secolo meno, che ci aiutano ad abbandonare un’idea di Tempo che ha senso trascorrere solo in funzione del ricongiungimento con Dio attraverso la morte. Poichè la vita vera non è su questa terra, bensì in cielo. Beninteso, nella cupa accezione agostiniana, solo se si è predestinati. (Un’idea che ricorda qualcosa e qualcuno a noi contemporaneo)

Certo, il Medioevo non è stato solo servitù, impossibilità di lasciare la zolla natia, ignoranza, miseria, malattie e morte. E’ anche invenzione, trasgressione, creatività, gioco. Ma, nuovamente, l’ideologia che segna in modo assoluto i lunghi secoli che separano la caduta dell’Impero Romano sino all’Umanesimo, non è certo pensiero di libertà, misericordia cristiana, amore e gioia: si viveva in attesa della morte, e spesso per la morte. Attesa, nella maggioranza dei casi non a torto, accolta come grande liberatrice. (E anche questo mi ricorda per associazione qualcosa dei giorni nostri).

Senza l’ideologia creata da titani del pensiero come Agostino, le civiltà e le società non possono acquisire la veste che conosciamo. Sono i sistemi di pensiero, i modi di interpretare la realtà, che la costruiscono e la determinano. Beninteso, solo quella che definiamo realtà sociale: il monte Bianco, il pinguino della Patagonia e il sasso precipitato a La Mecca, esisterebbero comunque anche senza di noi, prima di noi e senza il bisogno di essere stati da noi nominati. Ma è la vita sociale degli uomini, le loro scelte e di conseguenza le loro responsabilità, che sono indissolubilmente legate ai sistemi di pensiero, alle “filosofie”, costruite da questo o quel pensatore. Senza narrazione filosofica non c’è legittimazione, scudo di significato, protezione ideologica, nel bene come purtroppo nel male. Una responsabilità enorme, i cui esiti sono il più delle volte terribili.

Tornando ad Agostino, colossale contributore ideologico del potere temporale della Chiesa, mi piace ricordarlo per aver inventato con le “Confessioni” un genere letterario inedito, piuttosto che per la cupa intransigenza della sua concezione di umanità peccatrice senza speranza nè remissione.

Un uomo nonostante tutto umano, come testimonia l’involontaria malizia di sapore pre-gesuitico con cui si rivolge al suo Dio: “Signore, rendimi casto, ma non subito”.