Le parole tra noi leggere

By on Mar 7, 2015 in Comunicazione, Contemporaneità

Dell’ormai insostenibile leggerezza della post-sinistra abbiamo preso coscienza tutti o quasi. La post-sinistra, degna figlia del post-modernismo, si riconosce immediatamente: è la “società a responsabilità limitatissima” che campa producendo parole e mai cambiamento, è l’aggregazione variegata di soggetti che si distinguono per inconcludenza, inconsistenza e irrilevanza. E’ la volontà e la capacità di cambiare, il segno netto che distingue da tutto il resto chi si sforza di “essere sinistra” pur in questi tempi vaghissimi.

Cambiare non per l’uzzolo di seguire le mode o il corso delle stagioni; cambiare nel senso di procedere nella direzione di migliorare la vita di tutti, in particolare quella dei più sfigati, cercando di assicurare condizioni ragionevolmente simili ai blocchi di partenza nella competizione sociale e personale. Con la consapevolezza, certo, che trattasi di un’utopia e neppure tanto piccola. Ma un’utopia, mi si scusi l’ossimoro, sensata e persino praticabile. Peccato che la post-sinistra invece del cambiamento magari piccolo ma possibile qui e ora, pratichi l’arte della dichiarazione di principio proprio come i professionisti dell’anti-mafia e dell’anticorruzione. Così, con indiscutibile coerenza, la signora Boldrini resasi forse conto dell’irrilevanza sempre più imbarazzante della sua interpretazione del ruolo istituzionale che ricopre, giusto a ridosso all’otto marzo sollecita (promuove, indica, testimonia) la necessità di un radicale cambiamento.

 “Come è noto ” scrive la Presidente della Camera “in questa legislatura si registra il numero più elevato di deputate… così come si riscontra un significativo numero di donne che rivestono cariche e ruoli istituzionali prima ricoperti in via quasi esclusiva da uomini. Anche da ciò deriva in modo più evidente rispetto al passato l’esigenza dell’adeguamento del linguaggio parlamentare al ruolo istituzionale, sociale e professionale assunto dalle donne e al pieno rispetto delle identità di genere, a garanzia del principio di non discriminazione e a tutela della dignità della persona, in conformità a quanto previsto dagli articoli 2 e 3 della Costituzione”.

Adeguamento che si traduce nell’invito all’uso di ministra in luogo di ministro, deputata al posto di deputato. Non farlo secondo la signora Boldrini sarebbe un caso di “resistenza culturale”. Un contributo, se ho capito bene, che aiuterebbe a colmare le vergognose differenze – retributive, sociali, professionali, di libertà personale eccetera eccetera – tra i generi?

A parte l’uso fuori luogo del sostantivo resistenza, la signora Boldrini scorda o forse non ha mai saputo che i modelli culturali – linguaggi, stili, valori – non si impongono per decreto poiché sono il risultato di rapporti di forza di cui la lingua testimonia il primato, come racconta la storia delle lingue europee nel passaggio dal latino all’italiano e poi dal francese all’inglese.

Perché il linguaggio è la coscienza stessa, come spiegava pazientemente Hegel e un po’ meno Marx, di fatto non s’impone in forza di pronunciamenti burocratici o di generiche aspettative. Il linguaggio certo, s’inventa; ma per farlo bisogna avere il calibro creativo di Dante – Petrarca – Boccaccio oppure (in piccolo, molto più in piccolo) la svelta furbizia del pubblicitario D’Annunzio, inventore di parole quali “Rinascente, Liala, tramezzino, velivolo” e slogan di grande fascistico successo come “me ne frego”. In ogni caso, la lingua – letteraria o meno, altissima o banalmente pubblicitaria, – segue la realtà, ne è la conseguenza e non mai la genesi.

Ma la post-sinistra, non potendo cambiare la realtà, si accontenta di queste piccole supposte rivoluzioni che altro non sono se non impotenza e ipocrisia. L’ipocrisia piccolo borghese dell’eufemismo, di chi crede che cambiare il nome delle cose ne muti la sostanza. L’ipocrisia dei praticanti del politicamente corretto, responsabili dello spaccio delle più stravaganti espressioni verbali (“operatore ecologico, diversamente abile”) per citare due classici della falsificazione. Ovvero, mettere le peccette alla realtà invece di cambiarla. Cambiare nome alla merda dando a intendere (ma a chi? agli allocchi, ai più deboli che hanno meno parole, come insegna la scuola di Barbiana?) che la si possa trasformare in zabaione.

Le parole non s’inventano in laboratorio. Le parole vengono dopo le cose, gli oggetti fisici o ideali, che esprimono. Sono il significante, non il significato, gentile Presidente della Camera. Sono pesanti o leggere. Fugaci o durevoli. Profonde o banali. Sono le parole (qualora abbiano senso) che ci consentono di distinguere e distinguendo conoscere; e conoscendo cambiare.

Così gentile signora Boldrini dagli occhi dolcemente basedoviani, mirando il suo statico sembiante mi viene persino da rimpiangere l’altera signora Iotti, la Presidentessa della Camera come lei vorrebbe si dicesse, che fece della sgradevolezza castale un tratto consapevolmente esibito. Ma che di certo, la parola resistenza non l’avrebbe certo spesa alla leggera.