Zibaldone mentale di pensieri sul metrò (a proposito: Donzelli ha pubblicato una nuova edizione tematica dello Zibaldone di Giacomo Leopardi, il miglior pensatore del nostro Ottocento)
Sfoglio il giornale e trattengo un botto di vomito nel vedere come le masse criminaloidi (quanto aveva ragione quel conservatore/reazionario di Pasolini in proposito!) hanno ridotto la Barcaccia del Bernini: nè il questore e neppure il prefetto avevano colto il rischio della “tifoseria” più violenta e fascista d’Europa…
Il metrò procede la sua corsa nel sole mentre m’imbatto nel “topic” più assurdo del secolo, la discussione che saggiamente Corrado Augias (voto: 9) prosegue con i lettori. Il tema che carsicamente scompare e ricompare da qualche tempo è la figura (meglio dire: sfigura) di Heidegger. Dopo la lettera di un signore non so se più arcicattolico o arcicretino (le due cose spesso corrispondono) che sosteneva del piacere assoluto che dànno le letture di filosofia, quale godimento dello spirito, e che sì, in fondo, forse, potrebbe darsi, però il pensatore è un pensatore, “Essere e tempo” un capolavoro, e quindi Heidegger non può essere giudicato col metro normale…
Dopo qualche altra corbelleria di chi non vuole comprendere che fare filosofia significa assumere, volenti o nolenti, il massimo grado della responsabilità civile e morale, finalmente viene pubblicata la lettera di una specialista che sostiene sia giunto il tempo di interrogarsi sul ruolo che la filosofia (e i filosofi) abbiano avuto nel Novecento.
Stiamo parlando di filosofi, cioè di professionisti del pensiero. Non del poeta fulminato nel cervello (Ezra Pound) del medico francese scopatore di ballerine giovani (Louis Ferdinand Auguste Destouches, in arte Celine). Ma di inventori di sistemi di pensiero che esprimono inevitabilmente una valutazione sulla vita, sull’umanità, sulla responsabilità di compiere una scelta piuttosto che un’altra.
Figure queste dei produttori di pensiero, indispensabili in qualsiasi regime e particolarmente in quelli totalitari, perchè capaci di legittimare i comportamenti e le azioni. Senza ideologia di sostegno è più difficile (anche se non del tutto impossibile) esercitare la violenza. L’uomo è fatto così: è una carogna, certo. Ma per poter applicare serenamente la propria carogneria (e dormire tranquillo la notte) ha bisogno di un bel mantello ideologico che gli assicuri copertura morale.
Uccidi: sono solo polacchi (variante: ucraini, bielorussi, russi, croati, kosovari…). Uccidi: sono solo infedeli (variante: selvaggi, islamici, pagani, negri, indiani…). Uccidi: sono solo ebrei. I filosofi del Novecento, i pensatori del Novecento, hanno legittimato la violenza: quella tecnologico-industriale come quella tradizional-artigianale, e si direbbe che ancora continuino.
Un filosofo come di Heidegger è un maestro. Un grande maestro. Ma che maestro può essere (e quale maestria può esercitare) chi dopo lo svelamento della Shoah ha ancora il coraggio di scrivere che gli Ebrei, responsabili di aver portato la Modernità e la Tecnica nel Novecento, si autoannientarono ad Auschwitz? (In tarda età – le carogne muoiono sempre tranquillamente in tarda età – dall’esistenzialismo giovanile approdò al Cristianesimo; ma in nessuna delle molte pagine che ancora scrisse, in nessuna mai compare una parola di orrore e di pentimento).
I filosofi hanno molte responsabilità in più degli imbianchini, dei maestri di musica, degli ingegneri, dei lattonieri, dei panettieri, dei notai, degli agrimensori. I filosofi creano idee e ne legittimano l’applicazione da parte degli imbianchini, maestri di musica, ingegneri, lattonieri, panettieri, notai, agrimensori. I quali poi il più delle volte, non stanno lì a farsi troppe domande. (“Nessuno ha il diritto di obbedire!” scriverà un giorno Hanna Arendt, l’allieva prediletta dell’orrido maestro).
Ho voltato pagina e sto cercando di non leggere dell’ennesimo sacco di Roma (Fuksas, la sua Nuvola incompiuta più pesante di un ippopotamo obeso, lo scempio dell’EUR) quando un urlo acutissimo mi costringe ad alzare la testa: Aiuto, aiuto, aiutatemi! Ho fame, ho fame! E’ giovane, sui venticinque, alto, prestante, atletico, un biondo di genere (?) slavo. Calza sneaker nuove e di marca, sia pur di discutibile gusto; borsa a tracolla, giubbotto chiaro, potrebbe essere scambiato per qualsiasi studente di buona famiglia e forse lo è pure. La ragazza che mi è seduta accanto, una generica di Lodi come direbbe Arbasino, gli molla una moneta, forse per timore: la carrozza è semivuota, forse per solidarietà coatta.
Quando esco nel sole e cammino verso Architettura, mi sorprende il canto alto levato di un coro. Dev’essere tempo di lauree penso. Mi giro. Saranno una cinquantina, i ragazzi e i parenti vestiti con gli abiti della festa e le facce della provincia. Dottore, dottore, dottore del buco del c., scandisce gioioso un lato del coro. Vaffanc., vaffanc, risponde l’altro con giovanile esultanza. Un rito scaramantico, o l’inconsapevole premonizione del futuro che li attende? Poco distante un nero tenace cerca di vendere le sue cianfrusaglie. C’è il sole, sulle panchine di piazza Leonardo sciamano i ragazzi come uccelli di Primavera.