Il luogo dove la Storia si è accanita con particolare ferocia pare significhi “al margine”, o “sul confine”, oppure “in periferia”. E in effetti la radice slava kraj (“limite”, “bordo”) del toponimo Ucraina sembra suggerire qualcosa che ha bisogno di qualcos’altro per ottenere uno straccio d’identità, se non addirittura per esistere. (L’equivalente di qualcuno così sbiadito di cui non si ricorda il nome bensì la parentela: è il figlio di, è la sorella di).
Pensavo a questo leggendo il bell’articolo di Francesco M. Cataluccio (si firma proprio così, con la “M” puntata) sul Post.it.
Storia terrificante, storia insensata come solo gli uomini sanno fare; la cui colpa, come la vecchina incontrata da Cataluccio nel 1988 a Kiev, preferiscono graziosamente attribuire non a se stessi ma al (povero) Diavolo.
Leggendo il post ed appuntandomi un suggerimento letterario (Katja Petrowskaja, Forse Esther Adelphi) mi è tornato in mente un libro che avevo voluto seppellire nella memoria e negli anfratti della mie librerie; l’epilogo ovviamente avviene tra le colline di Kiev.
Si tratta di “L’albergo bianco” di Donald M. Thomas. Il libro (racconto, romanzo, scritto?) più straordinariamente terribile che abbia letto sulla Shoah: quando la scrittura si pone al servizio della riflessione sul senso della Storia e sulla responsabilità degli esseri umani. Quando la scrittura (come accade in Primo Levi, autore che più passa il tempo e più giganteggia per profondità e qualità stilistica) smuove la mente, le viscere, il cuore. Quando le parole scritte spezzano il respiro.
L’altro ieri, ieri, oggi: non c’è salvezza nella terra “al limite” dell’Inferno?