Le fabbriche del nuovo

By on Nov 29, 2014 in Comunicazione, Contemporaneità

Le aziende sono come le persone: apparentemente eguali, eppur profondamente diverse. Come non c’è una persona identica all’altra, così non esiste, nè mai esisterà, un’azienda uguale ad un altra.

Certo, possiamo raggrupparle per tipologia, dimensione e settore. Ma proprio come le note musicali che compongono un cluster continuano ad essere diverse l’una dall’altra, chi vende telefonate è (e sempre sarà) profondamente diverso da chi produce sfilatini di pan francese, flange per oleodotti o diagnostica per immagini.

La più grande differenza tra le imprese è tuttavia un’altra. L’indicatore che la misura potremo chiamarlo “coefficiente editoriale”, da cui deriva la valutazione del rischio / beneficio proprio di chi – individuo o impresa – applichi il proprio tempo, talento e risorse nell’ideare, produrre e distribuire qualcosa che non c’è, nel senso che prima non esisteva. E si badi bene, proprio perchè prima non esisteva non se ne sentiva ragionevolmente la mancanza nè tantomeno il bisogno.

Che bisogno c’è di un Matisse nel senso di quadro (di un Pollock, Fontana o Benozzo Gozzoli) di una sonata di Mozart, di un nuovo film di Ridely Scott, o di un altro goal di Maradona? Nessuno, naturalmente. Il bisogno, la necessità, il desiderio, nasce per ciò che conosciamo e che ci serve in modo immediato e impellente: un riparo dal freddo, cibo per saziare la fame e la sete, arco e frecce per vendera cara la pelle: i famosi bisogni primari della scala di Maslow, appunto. Placati i quali, col diminuire della nostra quota originaria di bestialità, cresce il tasso di umanità.

Sento già il critico affermare: “la vera distinzione è quella che separa le aziende innovative da quelle che non lo sono. Sono loro che creano qualcosa che prima non c’è“. Errore da segnare con la matita rossa. Le aziende innovative innovano come dice la parola stessa, un prodotto, un processo, un paradigma: Apple, Uber, Ikea oppure Skype. Ma lo fanno largo circa all’atto della loro fondazione, o nei migliore dei casi ogni tanto.

Le sole imprese che costantemente inventano qualcosa che prima non c’era (e di cui magari non si sentiva neppure il bisogno) sono quelle ad alto tasso di coefficiente editoriale. Ovvero tutte quelle che inventano, producono e distribuiscono cultura. Quelle che, oltre al normale rischio d’impresa (risorse, mercati, capitali, tecnologie, competitor, mutamenti climatici…) si caricano sul groppone pure l’unico fattore competitivo imponderabile e immisurabile: quello della creatività pura. Di chi letteralmente inventa qualcosa – piccola o grande non importa – che prima non c’era. E lo fa tutti i giorni, tutte le settimane, tutti i mesi, tutti gli anni. Perchè se smette di dare forma di prodotto ad una nuova idea, l’impresa è morta, sepolta, kaput.

Chi sono gli imprenditori culturali? Domanda facile: quelli che fanno libri, musica, arte, cinema, spettacolo, cucina, moda, design. Sono loro che, nel bene e nel male, contribuiscono a creare il gusto di un’epoca dando forma e sostanza allo Zeitgesist del periodo.

Sono loro che producendo nuovi modi e nuove forme, che rendono eccitante il tempo che ci è dato di attraversare, ben al di là dei pur fondamentali “beni essenziali” che per l’uomo moderno vanno ovviamente molto al di là di una banale caverna riscaldata e di un pezzo di focaccia.

Diciamo che corre la stessa differenza che c’è tra un regalo di Natale e “un tetto sopra la testa”. Non conoscete la fondamentale differenza? Un trenino elettrico, una Barbie, un pallone di cuoio, sono regali di Natale. Viceversa, un bel “paio di calze di lana fatte dalla nonna”, per quanto amorevoli sono solo un tetto sulla testa.

Le aziende editoriali sono frivole e si occuponano di cose fru-fru? La domanda merita subito un ricovero coatto in Psichiatria 1. Le aziende editoriali (libri, musica, arte, cinema, spettacolo, cucina, moda, design) sono quelle che segnano la vera differenza che corre tra Londra (Parigi, Berlino o N.Y.) e Pyongyang, Minsk o Astana. Tra una caserma sovietica e i campus dell’intelligenza e del gioco. Sono loro quelle che rendono godibile la nostra esistenza.

Il risvolto della medaglia. Le imprese ad alto tasso di creatività sono abitate da menti spesso capricciose e bizzarrie, carenti di metodo, con un livello di narcisismo che raggiunge le stelle. E spesso, purtroppo, dipendono dal talento di un signolo o da un gruppo ristrettissimo di persone. Ma la creatività è come la democrazia, secondo la celeberrima definizione che ne dava un creativo di talento come sir W. Churchill: metodo di governo limitato e altamente imperfetto, al quale tuttavia non si è ancora trovata alternativa migliore.