L’altra sera sull’impagabile Rai 5 è andato in onda “Inventare il tempo”, un nuovo programma nel quale il protagonista è la musica. “Musica eseguita e musica narrata. Si ascolta e si racconta un quartetto d’archi, una sonata per pianoforte, un madrigale, come si racconta un romanzo. Uno spettacolo di musica e parole in cui il compositore e la sua opera vivono nella storia del loro tempo e la trascendono per arrivare fino a noi. Come accade ai capolavori”.
In questa puntata si raccontavano le “Variazioni Goldberg” di J. S. Bach suonate e commentate da Ramin Bahrami. Ho avuto la fortuna e il privilegio di iniziare ad ascoltare Bach giovanissimo. Il primo disco, “I concerti Brandeburghesi” edito dalla benemerita “Fabbri editore”, lo acquistai a quattordici anni. Ho continuato ad ascoltare, anno dopo anno, interprete dopo interprete: anche se gli interpreti bachiani di riferimento sono sempre gli stessi: Wanda Landowska e Glenn Gould pianoforte; Gustav Leonhardt e Trevor Pinnock, clavicembalo.
Non sono musicista: non suono nessuno strumento e non so neppure leggere la musica. Non sono in grado di riconoscere una direzione d’orchestra ad orecchio, come qualcuno ridicolmente vanta (“Si capisce subito che è X: senti che tempi rallentati! Ehhh, Y sì che sa fare i pianissimi! Non si può sbagliare è di certo lui! Caro lei, solo Z è capace di dare colore all’ochestra!”) non sono neppure certo che le mie abitudini d’ascolto siano giustificate dal dall’educazione o dal gusto quanto, piuttosto, dall’abitudine. Ho amato subito il pianismo di Gould e so riconoscerlo, ma questo non significa avere doti critiche; anzi non significa niente. Dico questo per mettermi subito al riparo dal peggior morbo che affligge la musica e le manifestazioni artistiche nell’età del post-moderno e del pensiero debole: il dubbio che ci sia molto marketing e molta (in)cultura dell’evento nascosti dietro.
Per questo ho salutato l’epifania di Ramin Bahrami con stupore, interesse, dubbio. Ho subito comprato ed imparato ad apprezzare la sua interpretazione dell'”Arte della fuga” bachiana, ascoltata decine di volte in auto sino a quando il lettore dei cd non mi ha piantato in asso.
Non sono in grado, ripeto, di distinguere il genio dal buon artigiano, non so cogliere l’interpretazione – come racconta l’amico LT, musicista e didatta della musica – di un allievo che, solo tra mille alltri, è in grado di dare alla sua esecuzione un’impronta netta e fortissima; tuttavia riconosco lontano un miglio la puzza del marketing de noantri, il posticcio delle operazioni commerciali manipolatorie, la ridicola megalomania di chi si dichiara “erede di Mozart”, alla Giovanni Allevi.
Ramin Bahrami racconta che Bach gli ha salvato la vita e la sua storia di esule dall’Iran dei pasdaran lo testimonia: gli hanno ammazzato il padre in carcere e ha dovuto scappare dal suo paese.
Ascoltarlo ieri sera suonare in modo completamente diverso le Goldberg mi ha messo in difficoltà. Un suono completamente diverso da quello che sono abituato ad ascoltare. Non giusto o sbagliato: semplicemte diverso.
Anche ascoltare la sua voce di perfetto poliglotta mi ha creato imbarazzo: come tutte le altre volte che mi è capitato di ascoltarlo, mi ha ricordato il tono molle del prevosto, la voce che avevano i preti di una volta, quelli con la giacca a vento nera al bordo del campetto di calcio, quell’irrimediabile sound che è un misto fra sacrestia, conformismo e buoni propositi.
Non è bello veder suonare Ramin Bahrami. Nessun frisson, nessuno brivido romantico, nessun fascino saturnino alla Gould, e neppure l’apollinea compostezza alla Pollini, per intenderci. Non è divertente sentirlo raccontare che per rilassarsi lavora all’uncinetto: dice che un sacco di giovani uomini lo fanno in Germania. Al piano c’è un giovane uomo sovrappeso che sembra la controfigura delle guardie d’onore del pascià in un’edizione memorabile dell”Italiana in Algeri” scaligera: tutti tondi con i pancini di plastica rosa alla Budda. Un giovane uomo gonfio e sgraziato, che come un prete di campagna, dice cose sulla grandezza di Bach certamemente condivisibili ma altrettanto certamente banali, con il tono del curato che si appresta a gustare il cappone per pranzo: quanto ci fa bene Bach; quanto è eterno Bach; quanto può salvare i giovani Bach; che guida morale è Bach; quant’è grande la bellezza di Bach.
Non so, non sono in grado di sapere, quanto marketing muova il fenomeno Ramin Bahrami, le sue incisioni e la sua collana bachiana distribuita dal “Corriere della Sera” (in edicola a soli 9 euro e 90). Ben venga la divulgazione, ben venga la musica, ben venga ovunque e comunque l’amato Bach quando e se – come nel caso di Bahrami – senza dubbio non c’è sovrapposizione tra l’autore e l’esecutore nè tantomeno le pagliaccerie in stile Allevi.
Continuerò a salvarmi la vita nutrendomi di Bach apparecchiato dalle migliori tavole musicali (Gould, Koopman, Savall e compagnia cantante). E continuerò ad ascoltare Ramin Bahrami: forse anche dal suo pianismo potrò imparare qualcosa di nuovo. Ma separare l’autore dal romanzo, il pittore dal quadro, la musica dal pianista, nell’età dei performer e delle performance è sempre più indispensabile.