Nei giorni scorsi Asor Rosa ha pubblicato nella pagina culturale de “La Repubblica” un articolo sul “Conte di Montecristo”. Sul perché sia un capolavoro. Sulle ragioni intrinseche che lo rendono tale. Cercando di spiegare attraverso quattro (o forse erano cinque) regole la “meccanica celeste” che rende un testo unico e fuori dal tempo. (A dire il vero ci aveva già provato con successo qualche anno fa Umberto Eco, correttamente citato dal nostro, e quindi l’articolo non aggiunge granché; ma si sa che n’articoletto non si nega a nessuno).
Tuttavia qualcosa di curioso c’è. Diciamo che mi ha colpito l’ultima delle quattro (o cinque) regole citate da AAA. Chi onosce le (discutibili e assai discusse) posizione di Asor Rosa espresse lungo tutto il corso della sua lunga attività di critico militante, sa bene quanto per lui sia importante il nesso fra ideologia e forma letteraria; eppure in questo breve e per certi versi dimesso articolo, non se ne trova traccia.
L’ultima regola indica nella capacità di creare un mondo ex-novo, un mondo fuori dalla realtà che non esiste se non nelle pagine e nella mente del lettore, il segno fondamentale che trasforma un lavoro letterario in capolavoro, in racconto che pur letto e riletto ogni volta dona (sa donare) nuovi stimoli e nuova gioia. Quella gioia che aiuta (che ci aiuta) a sopportare più agevolmente le fatiche delle nostre vite normali e banali, la caducità ripetitiva delle nostre esistenze: il sogno, l’erotismo dell’eroico, il gioco, la fuga dall’inevitabile meschinità dell’essere.
Il “Conte di Montecristo”. Ma anche, dico io e non solo io beninteso, “I tre moschettieri”. (Mentre “Vent’anni dopo” è molto più debole, e addirittura deludente “Il Visconte di Bragelonne”. Gli è che anche allora, ai tempi di Dumas intendo, i sequel venivano peggio?).
Chi come me ha letto otto o dieci volte l’Odissea, sa benissimo cosa accadrà quando l’eroe rimette (finalmente) piede a Itaca, e lo sa anche se l’ha letta una volta sola e lo saprà per sempre. Conosce alla perfezione ogni gesto, passaggio e fase costruttiva del climax nella scena dell’arco, quando Odisseo dopo aver sopportato le ingiurie, aiutato dalla meravigliosa Atena uccide uno a uno gli orribili Proci. Ma il fatto di sapere come andrà a finire la storia – quella di Circe, del Ciclope o della povera Calipso – non toglie una stilla al godimento della lettura che si fa sogno erratico, fuori dal tempo, dal mondo, dalla realtà.
E’ così, sempre e comunque, per qualsiasi capolavoro? Certo che no. Nessuno, salvo che non sia uno specialista, legge e rilegge l’Ulisse. Quello di Joyce intendo. Capolavoro perché opera d’avanguardia, di scissione, di mutamento. Di paradigma, tono, linguaggio, stile. Ma opera ostica, affatto “erotica” nel senso dell’incantamento e del sogno. Così come nessuno per fare un altro esempio – sempre che non sia uno specialista – legge e rilegge il “Don Chisciotte”.
Mentre chiunque, umano sano di mente e ricco di cuore, godrà come la prima volta e più della prima volta a ogni rappresentazione o lettura de “La Tempesta”, del “Sogno di una notte di mezza estate”, del “Romeo e Giulietta”. E solo un coccodrillo delle paludi riuscirà a trattenere le lacrime. (“Ma come, ma cosa? Non dirmi che non sapevi la fine di entrambi??!! Certo che lo so! Ma che c’entra?”).
Tutto bene, dunque? Fatta pace con A.A.A., ammesso che si sia mai bisticciato? I critici militanti, del cinema, dell’arte, come della letteratura, son bestie strane. Soffrono spesso (non sempre, non tutti) del mal dell’Angelo. Quell’Angelus Novus di cui parla il grande Benjamin. L’Angelo della storia con le ali spiegate s’avanza verso il futuro… ma con la testa rivolta al passato.
Perché mai AAA, e con lui buona parte dei critici militanti, non guardano mai all’oggi? Possibile che non ci sia neppure un’opera contemporanea – non necessariamente un capolavoro assoluto – che pura risponda al requisito del sogno? Un’opera, forse caduca, ma capace di trascinare in un mondo altro i lettori?
Che strano: sono decenni che Umberto Eco ha spiegato i legami tra cultura alta e bassa, chiarendo come la modernità (cioè la nostra epoca) consista anche nel grande “melting pot” dei generi. Perché mai, dunque, i critici non riconoscono mai, nemmeno per sbaglio, che la signora Rowling con il suo maghetto ha fatto sognare milioni e milioni di persone nel mondo?
Persone che, forse, non sono lettori forti. (Con buona probabilità senza il “forse”). Che non leggeranno mai i classici (purtroppo per loro, certo). Ma che nelle pagine della saga hanno trovato piacere e conforto. E, come tutte le persone che leggono, sono diventare di certo persone (un po’) migliori. Ma questo, ai critici militanti temo non interessi.