L’amico UC è un raffinato polemista, oltrechè un lucido pensatore, come ben testimonia questo suo articolo redatto dopo una – presumo disperante – riunione UPA. Il tema riguarda (apparentemente) l’insensatezza del sistema della comunicazione pubblicitaria nel nostro paese. In realtà l’argomento che UC affronta è molto più ambizioso: è lecito sperare che la ragione, piccola isola circondata da un oceano di irrazionalità, non sia prima o poi del tutto sommersa dai flutti della stupidità? Francamente c’è da temere che no. Buona lettura.
Com’è noto agli addetti del settore, Lorenzo Sassòli de Bianchi è presidente dell’UPA, associazione degli spendaccioni in pubblicità generale in Italia. Ha introdotto l’assemblea del 2 luglio scorso, con una relazione piena di fascino, decorata da effetti speciali e musiche celestiali, che proponeva un’immagine del mondo della pubblicità angustiato da sei anni di decrescita spesso a due cifre, degli investimenti, che cominciava a intravvedere un barlume di luce per il 2015 e un inizio di ripresa a partire dal 2016. Ebbene, le probabilità che questo avvenga sono davvero scarse.
Non soltanto perché il mondo della comunicazione è completamente sfuggito di mano ai persuasori espliciti, ancora convinti di possederne il monopolio, ma anche perché i mezzi di comunicazione si sono moltiplicati come i conigli di Fibonacci, sono in molti casi dominati da tecnologi e gli investimenti alternativi a quelli dell’advertising hanno superato di gran lunga quelli di televisione, stampa e radio.
Come dice Sassòli, piove innovazione a dirotto su un sistema che a parte rare e lodevolissime eccezioni è passata da cani e bambini, a orsi e pinguini e punta ormai sulla ossessione della ripetizione, non accorgendosi che spesso i consumatori comprano malgrado la pubblicità televisiva da cui vengono quotidianamente violentati.
La percezione che spendere l’80% degli investimenti per raggiungere meno del 20% dei clienti che producono l’80% dei margini sia un lusso che ci si può permettere sempre meno, comincia a diffondersi sempre più. Quante imprese sanno che nello stesso momento in cui spendono milioni di euro per crearsi un’immagine, i loro dipendenti commettono miliardi di telefonate, centinaia di impiegati amministrativi e assistenti tecnici fanno ogni sforzo per rovinare la loro reputazione e decine di commesse di negozi mono e multimarca fanno sentire le clienti indegne di entrare nei loro negozi? E quante sanno apprezzare le differenze radicali che esistono fra notorietà, immagine e reputazione? Che molti tra i “big spender”, per usare il loro linguaggio, hanno un’immensa notorietà, un’immagine del tutto indifferenziata ed una pessima reputazione?
E’ giusto continuare a parlare del costo della comunicazione e mai della qualità della comunicazione? Se la televisione fosse così efficace come si sembra credere, perché mai le società di telecomunicazione, tra i più forti utilizzatori del mezzo, dovrebbero torturarci con telefonate all’ora di pranzo e cena, per proporci, con forte accento albanese, di cambiare gestore a condizioni molto vantaggiose? O le imprese energetiche a proporci sconti ridicoli sulle bollette, dimenticando di dirci che sono ormai costituite più dalle tasse che dall’energia?
Cosa autorizza le imprese e le agenzie a considerare i consumatori dei minus habens, ai quali si può propinare qualsiasi panzana, come presentare nerboruti pescatori siciliani che fanno colazione con latte e fiocchi d’avena, al posto della probabile peperonata? O mostrare una massaia italiana in deliquio perché Kevin Kostner si ritaglia un pezzetto di tonno con un grissino, su una tavola imbandita al mare?
Sassòli lo sa, dall’alto della sua colta discettazione, che il livello della comunicazione di massa in Italia è quello appena citato, e che la sua elegante presentazione ne è a distanza siderale? Si rende conto di rappresentare una comunità autoreferenziale, che si loda e si premia aspettando il proprio turno con supremo disinteresse circa il ritorno degli investimenti dei propri clienti e il livello di gradimento degli spettatori? Perché ritiene che le sue scintillanti generalizzazioni, le immagini liriche utilizzate, possano essere arricchite da termini incomprensibili alla maggior parte dei suoi concittadini, molti dei quali non sanno cosa sia in Italia il Ministero del Welfare, clamorosa confessione del nostro provincialismo?
In uno stagno molto pescoso come il suo testo, tralasciando completamente i termini inglesi di cui si può facilmente immaginare la frequenza, elenco qui di seguito alcuni vocaboli italiani e neologismi presi all’amo con grande facilità: il cardo e il decumano, le logiche caotiche delle nuove audience, umili architetti di percorsi frattali, aposiopesi, litote, zeugma, paratassi, solecismo, pandettisti, marketing memetico…
La domanda è: perché?