E’ sempre utile, e molto spesso pure divertente, leggere i giornali del “giorno dopo”. Quando chi ha perso – la partita, il portafoglio o le elezioni – si dà da fare come può per dare una spiegazione. Oppure, caso classico italiano, per negare risolutamente i fatti.
Il caso del giorno, premio Ignobel della retorica farlocca, credo che questa volta l’abbiano vinto i sondaggisti. Come raccontavo qualche puntata fa, fare previsioni elettorali nel nostro paese è (molto) più difficile che altrove. Per la semplice ragione che gli italiani spesso votano turandosi il naso, vergognandosi delle scelte compiute nel segreto dell’urna. Di conseguenza ne fanno le spese la qualità delle previsioni e degli stessi exit-poll, i cui esiti sfiorano il ridicolo.
E’ un mestiere difficile, difficilissimo, quello del sondaggista elettorale. Ma qualcuno lo deve pur fare. Peccato che tutti senza eccezione alcuna abbiano attribuito la colpa (sempre lei, mannaggia alla Controriforma!) alla “turbolenza” degli elettori, alla “straordinaria volatilità” delle scelte identitarie (degli elettori) che vanificano e rendono “impossibile” una previsione ragionevolmente affidabile.
I più sfacciati di loro sono arrivati a sostenere che quando i flussi elettorali in entrata e in uscita superano il 10%, una lettura corretta è quasi impossibile; il che sarebbe come dire che se la foto è mossa, la colpa è del bambino che non sta fermo abbastanza.
Insomma, se i dati erano cannati di dieci unità, se le previsioni annunciavano uno spasmodico testa a testa che poi non s’è visto neppure col binocolo, la colpa (la colpa, la colpa!) è come sempre nostra di cittadini, consumatori, elettori, eccetera eccetera.
Domanda delle cento pistole: se l’elettorato fosse “ragionevolmente” immobile, costante nelle scelte e quindi facilmente prevedibile, che bisogno avremmo mai dei sondaggi d’opinione?