Classico/romantico, nomade/stanziale, onnivoro/vegano, metropolitano/bucolico, minimalista/barocco, edonista/moralista, presenzialista/eremita, interista/milanista, calciofilo/calciofobo, Nord/Sud, legno/plastica, tonale/dodecafonico, ragione/istinto, processo/casualità, vasca da bagno/cabina doccia, pasta/riso, birra/vino, vela/motore…
Potremmo continuare all’infinito nell’elenco delle coppie oppositive con le quali è possibile disegnare qualsiasi mappa concettuale del mondo, universi fantastici compresi. Esercizio nel quale si sono applicate nel corso del tempo le più grandi menti dell’umanità, con risultati a onor del vero non sempre all’altezza della fama. Inutile forse ribadire che il “nostro contemporaneo”, l’età nella quale il caso ci ha dato l’opportunità di vivere, è il tempo che con maggiore copiosità e costanza produce coppie oppositive. La “macchina della moda” è incessantemente al lavoro, impegnata a produrre ogni giorno e a ogni latitudine una nuova tendenza, un nuovo gusto, una nuova follia, innocente o meno, che per definizione e per fisiologia concorre a creare immediatamente il proprio opposto che le dà equilibrio e identità al tempo stesso. Come se anche il sistema della moda rispondesse alle logiche incorruttibili che guidano le meccaniche celesti e la corsa invisibile delle particelle elementari.
L’ultima (ultima?) moda o se preferite tendenza, è metropolitana e minimalista peggio di un Mondrian spogliato dal colore. E’ assurda e insensata, va contro la logica e il progresso. E’ contagiosa e di successo, ed essendo metropolitan-fighetta ovviamente costa cara. Ma ha subito scatenato l’orgoglio e con esso l’ingegno degli hipster-poco-contante, l’indoma categoria socio-culturale in forte crescita le cui risorse economiche sono inversamente proporzionali rispetto alle esigenze di esibizione mondana.
La faccio breve: si chiama scatto fisso, ed è la bici più minimalista (e più assurda) mai inventata. Come il pollice opponibile, conquista evolutiva costata milioni di anni e di speciazioni, il cambio – l’invenzione di quel genio che fu Tullio Campagnolo – rivoluzionò nel anni Trenta il ciclismo sportivo e non solo. Prima del cambio si correva con un pignone unico e due rapporti: per passare da un rapporto all’altro si doveva scendere, staccare la ruota posteriore (presumibilmente smoccolando) e cambiare pignone. E correre in bici era una fatica da bestia, come testimoniano le immagini in bianco e nero degli esordi.
Con il fisso c’è un solo rapporto possibile e nessun meccanismo di “ruota libera”. Non è quindi possibile pedalare a vuoto all’indietro, né tantomeno smettere di pedalare. Non ci sono di norma neppure i freni – orrore&raccapriccio! – e per frenare si fa forza all’indietro con le gambe (una tecnica adattissima al traffico milanese). Non ci sono né luci e neppure catarifrangenti, niente parafanghi e ovviamente neppure cicalini o portapacchi. E poiché c’è un solo pignone, c’è un solo rapporto possibile che dovrà andar bene per tutti i percorsi e tutte le stagioni. Insomma, un mezzo perfetto per farsi ammazzare dando pure un bell’alibi all’investitore. Nata dalla pista, dal velodromo, non è certamente l’ideale per affrontare la pur minima salita e neppure i frequenti stop and go che impongono i percorsi cittadini. Eppure è di gran moda.
E’ bella la bici col fisso? Certo che sì, come sono belle le statue di Giacometti, come le modelle sottili come giunchi del primo Avedon. Come sono belli (quando lo sono) l’assenza, il vuoto, il togliere e il levare. Bella o meno bella, salutista se non addirittura anoressica, la fisso è quasi sempre colorata nel poco o pochissimo che c’è. Nel Quadrilatero come alla Statale, davanti al Politecnico o fuori dai locali di tendenza di Milano, davanti al Pantheon a Roma, sui Lungarni a Firenze, in Corso Palladio a Vicenza (eccetera eccetera) il giallo, il verde, il rosso, l’arancione e il fucsia spesso fosforescenti delle fixed bike segnalano immediatamente la vittoriosa presenza del nuovo soggetto culturale.
Perché tutto, ma proprio tutto, nella nostra età altro non è che prodotto culturale, dove la funzione lascia il passo senza colpo ferire all’estetica, all’estro, al capriccio. Bella o brutta, bizzarra se non totalmente irrazionale, modaiola e quindi destinata come tutte le mode a durare lo spazio di un mattino, la fissa ha un merito certo: non puzza e non fa rumore. Come disse Amstrong allunando, “un piccolo passo per l’uomo, un gigantesco balzo per l’umanità”.