Ero alle prese con la scrittura di una newsletter in cui non c’era niente da dire ma bisognava dirlo lo stesso. Accade spesso ultimamente e, a sentire i colleghi, non solo a me. In questi casi tergiverso. Faccio dei solitari, riguardo gli highlights di Federer, oppure giochicchio con il computer cercando cose a caso. Ieri è stata la volta di Borges, uno dei più grandi produttori di sentenze non verificabili. Sentite questa: “Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto; io sono orgoglioso di quelle che ho letto.”
Forse perché si è appena concluso lo “Strega” nel senso di premio letterario e non era ancora calata la polvere sulle dichiarazioni di Siti non so se più intelligenti, coraggiose o ovvie (le potete leggere qui) ma è stato inevitabile pensare che di questi tempi un povero cristo di lettore dovrebbe andare orgoglioso anche delle pagine che non ha letto. E che verosimilmente mai leggerà. Pensavo che, bene o male, fosse finita lì. Polemiche e scuse “politiche” di Siti. Invece il web (mai giochicchiare con il computer) mi propone la seguente notizia: “Il 4 luglio al Museo Etrusco di Villa Giulia, a Roma, la sestina finalista è vestita da grandi stilisti: Donatella di Pietrantonio indosssa un capo Etro, Chiara Valerio tutta Dior, Raffaella Romagnolo un abito Missoni, Dario Voltolini e Paolo Di Paolo vestiti da Lardini e Tommaso Giartosio da Gucci”.
Ora, sia detto una volta per tutte, non ho nulla contro i grandi stilisti. E neppure contro i piccoli. Se fossi nato donna e ricca, vestirei Armani e Chanel anche per andare al cesso; e se fossi affetto da riccanza mi farei su misura pure le mutande. Tuttavia questa commistione così sfacciata tra brand e letteratura mi è parsa, come dire, un’invasione di campo. E proprio nel momento di massima sofferenza, sotto schiaffo per via della scrittura di una newsletter in cui non c’è niente da dire ma bisogna dirlo lo stesso. La vera arte non va mai spiegazzata, sostiene Lucy Van Pelt: il principio vale anche per un abito di Dior?
Per mia (e vostra) fortuna mi è come sempre venuto in soccorso l’ottimo Milan Kundera. In “Praga, poesia che scompare” (sì, hanno stato i russi grazie anche al nostro silenzio colluso) quello che considero uno dei maestri del pensiero novecentesco propone alcune riflessioni nel capitolo “Ottantanove parole” che – ma guarda che combinazione – riguardano proprio scrittori e scrittura. Trascrivo integralmente:
ROMANZIERE (e la sua Vita)
L’artista deve far credere ai posteri di non essere vissuto dice Flaubert. Maupassant vieta che il suo ritratto figuri in una serie dedicata a scrittori famosi: «La vita privata di un uomo e la sua faccia non appartengono al pubblico ». Her-mann Broch a proposito di sé, di Musil, di Kafka: «Nessuno di noi tre ha una vera bio-grafia ». Il che significa non già che la loro vita fosse povera di eventi, ma che non era desti-nata a segnalarsi, a diventare pubblica, a tra-dursi in bio-grafia. Chiedono a Karel Capek perché non scriva poesia. La sua risposta: «Perché detesto parlare di me stesso ». L’elemento che distingue il vero romanziere: non gli piace parlare di sé. «Detesto ficcare il naso nella preziosa vita dei grandi scrittori e nessun biografo solleverà mai il velo della mia vita privata» dice Nabokov. Italo Calvino mette in guardia: a nessuno dirà una sola parola ve-ra sulla sua vita. E Faulkner desidera «sparire come uomo, essere cancellato dalla storia, senza lasciarvi alcuna traccia di sé se non i libri pubblicati». (Si noti: libri e pubblicati, quindi niente manoscritti incompiuti, lettere, diari). Secondo una famosa metafora, il romanziere demolisce la casa della sua vita per costruire, con quei mattoni, un’altra casa: quella del suo romanzo. Ne deriva che i biografi di un romanziere disfano quel che il romanziere ha fatto, rifanno quello che ha disfatto. Il loro lavoro, puramente negativo dal punto di vista dell’arte, non può illuminare né il valore né il significato di un romanzo. Nel momento in cui Kafka suscita più attenzione di Joseph K, il processo di morte postuma di Kafka ha preso avvio.