Non mi sarei mai permesso di scrivere una riga su Valeria Solesin nè tantomeno sulla sua famiglia. Per riguardo. Per rispetto. E perché tutto era già stato detto. Soprattutto perché come dice Wittgenstein, “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”. Può parlare dell’atto contro natura per eccellenza – la morte di un figlio – solo la grande poesia.
Ma oggi ho scoperto un’altra cosa di Alberto Solesin. Della sua lezione di dignità e misura, della sua compostezza laica, sapevamo già. Come pure della sua per me incredibile incapacità di odiare. A me che la sola idea fa venire il sangue agli occhi. Oggi tornando a casa ho scoperto che il signor Solesin è un preside.
Un preside, capite. Uno di quelli che, prima lo Stato con la sua quarantennale politica sciagurata e i genitori capra poi, hanno svilito, svillaneggiato, derubato di ruolo, identità, dignità professionale. A me che vengo da una famiglia di insegnati – sorelle, cognati, ex-mogli – e sono stato insegnante mio malgrado io stesso, la testimonianza che quest’uomo ci ha regalato è il miglior auspicio, il miglior dono possibile.
Altro che il mantra del “non so odiare”: la vera lezione è la dignità, la compostezza, la pudicizia, il coraggio, il rifiuto della retorica non più sopportabile delle prefiche lamentose che in ogni fatto e accadimento della vita cercano la scusa, il colpevole, lo scarico di responsabilità e si rifugiano immancabilmente nel piagnisteo.
L’idea che Alberto Solesin sia un preside – cioè un educatore – mi dà gioia e speranza. Sono loro, gli insegnanti di questa scuola maltrattata in primo luogo anche da molti di loro, insegnanti incapaci, lazzaroni e furbetti: tutti noi ne abbiamo incontrato più d’uno, le persone che hanno il compito di formare i cittadini di questo scassatissimo e maltrattato paese. Maltrattato soprattutto da noi stessi.
Ricordo il titolo di un libro di testo della scuola media di cinquant’anni fa, mai aperto e mai considerato dal fancazzista di insegnante di Lettere ch’ebbi allora, un narciso dal volto marmoreo di statua romana esibito in reiterate positure teatrali, a cui il culo drammaticamente basso aveva sottratto a una luminosa carriera attoriale (sic). Era un manuale di Educazione Civica. Si intitolava “Lo Stato siamo noi”. Siamo noi, nella nobiltà e nella canaglia. Nel lindore e nel lerciume. Nella compostezza di chi si fa persona, e nella sguaiataggine della massa che si fa plebe. Lo Stato siamo noi, e siamo noi che decidiamo in che stato vivere.
Del valore e della nobiltà dei pochi che nella gioia e nel dolore fanno la differenza, è di loro che bisogna parlare. Affinchè il racconto diventi il carattere di cui abbiamo così grande bisogno.