1979

By on Ott 18, 2022 in Contemporaneità

Ricordo molto bene il ritorno di Khomeini in Iran. Era il febbraio del ’79 all’aeroporto di Teheran lo attendeva una folla strabocchevole. Quello che pareva impossibile invece successe: un gruppo di preti dotati di disumano fanatismo quanto di straordinaria tenacia, riuscì nel giro di poche settimane a riportare l’orologio della Persia, una delle civiltà più antiche, una nazione grande cinque volte e mezza l’Italia, indietro di mille e quattrocento anni. Quaranta anni fa e pare sia passato un secolo; e pare che nonostante il sangue versato dalle donne persiane nulla possa mettere in discussione il potere dei preti disumani. (Inutile dire che, perfetto ignorante della realtà politica persiana qual sono, spero di essere smentito).

Mi permetto di parlare di ciò che non so per la semplice ragione che l’orribile vicenda persiana serve per guardarci allo specchio; a ragionare di noi, dei nostri facili innamoramenti che ci rendono persino più stupidi di quanto non siamo già normalmente. Ricordo molto bene il ritorno di Khomeini in Persia: uso il nome che secondo Erodoto deriva dall’eroe Perseo, in disprezzo alla richiesta dello scià Reza Pahlavi di usare il nome originario di Iran. Ricordo i titoli dei giornali e gli articoli dei giornali. La maggioranza dei quali, in particolare quelli orientati a sinistra, gioivano per la fuga dell’immondo Scià, il sanguinario attaché imposto dagli Stati Uniti per meglio controllare (per tentare di controllare) la regione medio-orientale. Uno dei più clamorosi errori di politica internazionale, oltre che uno dei più orrendi crimini compiuti da quello che nonostante tutto continua a restare il baluardo della democrazia nel mondo.

Abbiamo esultato alla vista degli aguzzini della SAVAK in fuga. Abbiamo riso della famiglia Pahlavi ritratta nel pacchiano esilio hollywoodiano. Delle loro ridicole promesse di ritorno nell’amata patria. (Si sa, da che mondo è mondo i reali in fuga suscitano allegria e sberleffi, almeno sino a quando non si fa il conto dell’argenteria che manca da casa). Distratti dal comico, dall’intrinseca volgarità di lustrini pennacchi e pellicce, non ci siamo accorti che l’orrendo monaco odiatore delle donne, del vino, della musica e di tutto ciò che rende degna la vita, stava seppellendo il paese in cui visse il grande Omar Khayyam, matematico e poeta cantore del piacere e dell’amore, sotto una coltre di piombo fuso.

Noi occidentali – ignoranti o informati, giovani o anziani, ingenui o resi cinici dagli urti della vita – dopo settantasette anni che crediamo di aver trascorso in pace solo perché non abbiamo voluto vedere la guerra ai confini del cortile di casa, siamo come le beghine, le vecchie donne che non sapendo impegnare altrimenti il tempo frastornavano le orecchie di Dio e dei santi con interminabili confuse preghiere. Noi abbiamo smesso di pregare (e dove potremmo del resto? Anche le chiese sono ormai case chiuse) ma introniamo gli dèi con il suono delle nostre lamentele: non abbiamo voluto comprendere quaranta anni fa, continuiamo a non voler comprendere oggi. “Zeus toglie prima il senno a colui ch’egli vuol mandare in rovina”.

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