La storia di Leila, la neonata morta soffocata dai gas lacrimogeni a Gaza, è a suo modo esemplare. La cronaca racconta che la madre – vicina al movimento Hamas, non esattamente un’associazione per la promozione del bricolage – era “uscita a manifestare”. A casa la piccola ha iniziato a fare ciò che i neonati spesso fanno, piangere. Lo zio, sprovveduto, mentecatto o entrambe le cose, ha pensato che la soluzione migliore fosse portarla dalla madre che nel frattempo aveva conquistato la barriera che separa la striscia da Israele. Un luogo non propriamente simile all’area relax dell’Ikea.
Inevitabile domandarsi se la chiave sia la disperazione o l’imbecillità. La prima induce a compiere atti insensati poiché si è “fuori dalla speranza” e non ci si aspetta più nulla. La seconda ti rende preda ideale di chi, con cinismo e freddezza, ti manipola e ti usa.
Ora, inevitabilmente, si alzano le voci che accusano Israele. Ora, altrettanto inevitabilmente, il sangue chiamerà altro sangue. (Per la vecchia legge dell’empatia che va sotto il nome de “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, mi domando cosa faremmo noi se un’orda di svizzeri armati di coltelli, copertoni incendiati e bombe molotov, premesse alla frontiera di Chiasso al grido “riprendiamoci Como!”…).
Come molti della mia generazione sono arrivato a quella che chiamo “opzione Oz” (nel senso di Amos Oz, lo scrittore, non dell’omonimo mago) dopo un’attraversata del deserto durata decenni. L’opzione Oz – semplice, sensata e quindi difficilissima a farsi – prevede di separare la casa. E di provare a vivere come inquilini che, pur detestandosi, si sopportano. Proprio ciò che accade nella stragrande maggioranza dei condomini di tutto il mondo. L’opzione Oz è raccontata assai bene in “Cari fanatici”, Feltrinelli 2017.