Ho passato molte ore della mia vita a Davos, e ancora insisto a frequentarla sulle pagine del capolavoro che l’hanno resa magica. Magia che, a differenza di Torino e Praga le “capitali magiche” per eccellenza, è rigorosamente priva di alcunchè di satanico. Neppure ora che la ridente località sciistica (così la descrivono le guide: ma non chiedetemi cosa ci sia da ridere) grazie ad un astuto signore svizzero, l’economista ed accademico Klaus Schwab, è divenuta famosa per il meeting dei Signori dell’Universo.
Un appuntamento nel corso del quale i ricchi e i potenti del mondo se la raccontano teorizzando ipotesi, disegnando scenari, tratteggiando previsioni sul destino del pianeta. Che anno dopo anno, con una regolarità che neanche il rovescio lungo linea del Divino Federer, puntualmente non si verificano mai. (il mio amico Buddy Fox ha scovato in proposito un catalogo di cazzate davosiane assortite che vanno dalla supposta fine dello spam sino al prossimo fallimento di Google).
Le cazzate più rovinose riguardano ovviamente il comparto economico finanziario: nessuno di questi “esperti” – la pur valida signora Lagarde in testa – è mai riuscito a comprendere nè tantomeno ad anticipare gli eventi. La cosa è tuttavia irrilevante: l’uomo di Davos, come è stata soprannominata questa specie umana, è come gli hippie degli anni ’60, “non pensa al suo futuro”. Qualunque cosa accada, su qualunque Titanic si trovi, il davosiano viaggia in prima classe e ed è perfettamente consapevole che una (ricca) scialuppa per lui ci sarà sempre.
Leggendo i resoconti, quest’anno pare che a Davos si siano superati. Cosa non facile. Alla signora Merkel che ha tenuto una solida lezione di storia ricordando come il protezionismo sia stato una delle cause della crisi del ’29 e della nascita dei totalitarismi, pochi hanno obiettato che il suo nobile globalismo poggia su di un surplus commerciale spaventoso a favore del paesuzzo suo. Per non parlare degli applausi riservati al premier indiano, l’ultranazionalista Narendra Modi, protezionista radicale ed induista integerrimo che simpaticamente attizza l’odio verso i mussulmani del suo paese. Ovviamente il nemico della stampa europea, non tutta a dire il vero, è Donald Trump, accolto tuttavia benissimo dai davosiani nonostante le minacce di introdurre dazi doganali; si sa l’uomo di Davos non ha principi, ma solo interessi.
Nonostante tutto, nonostante Trump, gli Stati Uniti restano il paese più aperto commercialmente del mondo, con un enorme disavanzo a favore di Cina, Giappone, Messico. Un dato di realtà che scavalca le ideologie e persino le antipatie. Dire come fa Trump che questo squilibrio deve essere in qualche modo sanato, non sembra quindi un’eresia e neppure la miccia paventata dalla signora Merkel di nuovi terribili disordini mondiali.
La globalizzazione – “questa” globalizzazione: non è la prima – è un evento benedetto. In Oriente ha liberato da fame e povertà secolari centinaia di milioni di persone. Al tempo stesso, “questa” globalizzazione ha massacrato il segmento meno specializzato e tecnologico della classe operaia occidentale, contribuendo inoltre all’estinzione della così detta classe media, i “five million” che in Italia sono i responsabili di tutti gli acquisti culturali: cinema, teatro, giornali, libri.
E allora vuoi vedere che il signor Trump potrebbe avere anche un po’ di ragione? Che l’assenza di equilibrio nel commercio mondiale è una follia? Che gli aiuti stabiliti nel 2000 da WTO a favore delle economia in via di sviluppo hanno fatto il loro tempo? Che l’austerità alla tedesca fotte noi, la Francia e la Spagna?
E’ vero, il signor Trump è tra le cose più disgustose mai apparse sugli schermi dai tempi del cinema muto. Ma se domani ciuffolone twittasse che la Terra è rotonda e gira intorno al Sole, dovremmo necessariamente dargli torto?