Rispondendo ad una domanda riguardo a tagli e sacrifici, Marco De Benedetti attuale presidente del gruppo editoriale GEDI, afferma: “Lei mi chiede se ne serviranno ancora e con onestà le rispondo di sì, sarà inevitabile. La crisi della carta stampata è cominciata dieci anni fa e non è terminata, la contrazione del mercato conserva una velocità superiore ai risultati economici che producono sia il giornale sia il digitale. Dobbiamo accompagnare questa transizione, non siamo lontani dal punto di svolta, ma credo che avremo ancora bisogno di qualche anno”. Interrogato sulla fiducia che nutre nei giornali di carta, dichiara di averne molta: “Non dò retta alle profezie che lo condannano. Naturalmente dovrà evolvere sempre di più, e ci sono già molti esempi nel mondo a cui guardare, dovrà diventare un prodotto più asciutto e di grande qualità giornalistica nell’informazione, nelle inchieste, nella scrittura”.
M’intendo davvero poco di editoria e ancor meno di giornalismo; ed è forse questa la ragione che m’impedisce di comprendere espressioni quali “prodotto più asciutto” ma di “grande qualità nella scrittura”. Di norma “più asciutto” significa meno pagine, meno testo, più apparati iconografici (infografica e fotografie). L’esatto contrario di ciò che il lettore “vero” (perdonatemi l’elitismo) continua cocciutamente a cercare e a richiedere al “suo” giornale: i disegnetti, le foto e i video li trova già sull’edizione digitale dei giornali che hanno imparato a mischiare allegramente notizie e gattini.
Perché la “gente” abbia smesso di compare i giornali e s’accontenti di breaking news sempre più break e sempre meno news, è un mistero su cui indagano da almeno dieci anni mass-mediologi, sociologi e intellettuali in servizio permanente effettivo. Fanno loro buona compagnia gli esperti ed espertissimi del web (categoria alla quale – orrore! – magari pure io appartengo senza neppure accorgermene) che ogni giorno più volte al giorno distillano pareri, recitano opinioni, suggeriscono soluzioni. (“Signora mia”, principierebbe Arbasino se avesse ancora voglia di scrivere come scriveva quarant’anni fa).
Eppure – ecco che mi unisco alla massa sconfinata degli esperti – la risposta non è difficile; non la soluzione del problema, ma la spiegazione del fenomeno.
Uno: la gente non legge “scrittura di qualità” perché leggere (la qualità) è un impegno. Richiede attenzione e fatica, come insegna la “Prima Legge di Orietta Berti”.
Due: dei “giornali” e più per esteso dei “giornalisti”, non si fida più nessuno, così come si tende a non credere al medico, al fisico nucleare, allo specialista in genere; con la differenza che i giornalisti al pari dei politici hanno fatto davvero di tutto per perdere credibilità, al contrario dell’epidemiologo o dell’esperto in meteorologia.
Tre: se vendo meno taglio; se taglio non ho denari per pagare le risorse di qualità; se non ho qualità, pubblicherò vaccate; se pubblico vaccate la gente mi leggerà (sempre) meno; se mi leggono meno, continuerò a tagliare. Oltre ai tagli alzerò i toni: urlerò i titoli e griderò le notizie, vere, verosimili o preferibilmente farlocche. (Purtroppo se mi metto a gridare il mio vicino urlerà più di me e le sparerà più grosse, e allora io… eccetera eccetera
Fu così che i giornalisti rubarono il lavoro agli (onesti) pubblicitari. Quelli che per contratto devono inventare le storie più inverosimili. Balle spaziali che contrariamente alle urla e ai gattini a volte sono pure carine. Ite, missa est?