Sul cambiamento

By on Set 1, 2018 in Contemporaneità

Sensibilità al cambiamento. Indispensabile, si dice, per l’uomo d’impresa. Più del completo giacca-cravatta-calze-blu-filo-di-scozia. Scordando che il cambiamento è come un autobus senza freni che ti viene addosso; ma tu, al contrario del pedone avveduto, spostarti non puoi. (Singolare che al solo cambiamento certo e irrevocabile – la propria fine di funzionari della specie – non ci si prepari mai; si pianificano le vacanze, il mutuo della casa, il percorso di carriera e pure il cambio dell’olio nel tagliaerba, ma al proprio fine corsa si preferisce non pensare). Insomma, il cambiamento è una tale seccatura al punto che sono sempre gli “altri” (altri chi, non si sa) che devono cambiare. Eppure lui il cambiamento è come la mosca che pensi di aver scacciato aprendo la finestra; è un’illusione e lo sai, ma ogni volta ci ricaschi e ci riprovi.

In tema di cambiamento la domanda automatica e (ho scoperto pure la più frequente) è: sono cambiato io, oppure è cambiato lui. Laddove il lui è il brand preferito (sapore) il giornale d’affezione (toni e contenuti) il partito o movimento politico (principi, valori, scelte, schieramenti). Ad esempio, sono cambiato io oppure è cambiato lui, nel senso di Giuliano Ferrara. Cosa è successo (a me) che ora trovo condivisibili e persino godibili le sue opinioni (in particolare l’ultima sullo sciagurato Depardieu e tutto il resto) oppure cosa è successo a lui e al suo giornale, diventato d’un tratto stimolante come un Campari soda alle undici del mattino? (E di converso, cosa è accaduto alla povera “Repubblica”, novella suocera della sinistra-sinistrata, divenuta più noiosa di un elenco di combattenti e reduci dell’Adamello?).

L’idea più feroce sul cambiamento me la fornisce l’amico G.D. (Non ho ancora compreso se, come il Milani de “Il Foglio”, G.D: sia un pre-politico o un a-politico, dove l’alfa ha funzione privativa; nel senso che ha una storia di formazione diversissima della mia per età, inclinazioni, esperienze). E così d’un tratto G.D. mi chiede spiegazioni sui Festival de “L’unità”. E’ un giornalista economico lui, e pure bravo. E non si capacita che si possa fare una festa intitolata a un giornale morto. Morto da un pezzo, tra l’altro. E ben prima di morire ufficialmente. Ammazzato già all’epoca delle cassette dei film ficcate dentro dall’inossidabile Veltroni: si guardavano i film ma non si leggeva giornale, sino alla direzione (si fa per dire) di Concita De Gregorio, la nostra insuperabile “Hello Dolly” quotidiana.

E così il PD, il partito più indecorosamente rissoso della storia, invece di fare due conti con se stesso e con i suoi elettori passati, presenti e (forse) futuri, fa le feste. E senza alcuna ironia continua ad intitolarle ad un giornale ammazzato (dal cambiamento non percepito) il cui nome dovrebbe evocare l’assenza di divisioni, la condivisione di strategie e obiettivi, la concentrazione degli sforzi e delle energie. La solidarietà e persino (udite, udite) la fratellanza. Invece l’unica cosa che cambia sono i coltelli. Adesso vanno di moda quelli a sega.

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